Economia

È la Pasqua più dura per gli allevatori di agnelli e capretti

Crollate le vendite di ovicaprini: in provincia 2.000 allevamenti. Azzerati i pranzi in agriturismo
Nel Bresciano sono duemila gli allevamenti di ovicaprini
Nel Bresciano sono duemila gli allevamenti di ovicaprini
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Quattro italiani su 10 (41%) porteranno l’agnello in tavola a Pasqua per rispettare le tradizioni, ma anche per sostenere la sopravvivenza di 60mila pastori italiani duramente colpiti dalla crisi provocata dall'emergenza Covid. È quanto emerge da una indagine in occasione della ricorrenza della Pasqua durante la quale si acquista gran parte dei circa 1,5 chili di carne di agnello e capretto consumati a testa dagli italiani durante l’anno.

Una Pasqua difficile per gli allevatori di ovicaprini tanto che il grido d'allarme coinvolge anche Brescia dove il patrimonio è di circa duemila allevamenti per quasi 35mila capi.

In più la pasquetta senza gite fuori porta mette in difficoltà anche il sistema agrituristico bresciano. Il tipico pranzo: salame, uova e insalata va in soffitta con una ospitalità in agriturismo che si è azzerata. «Senza un deciso impegno - secondo Coldiretti - la pastorizia italiana rischia di scomparire. Ecco perché le principali catene della distribuzione organizzata dovrebbero, almeno in questo periodo, sostenere il tradizionale consumo di carne italiana di agnello e di capretto, garantendo una adeguata remunerazione dei prodotti agricoli.

Il consumo di carne ovi-caprina viene organizzato su massimo due cicli annuali, ma il momento più importante è quello pasquale: se si cancella anche questo le aziende vanno in grande sofferenza. A rischio non c'è solo la biodiversità delle preziose razze italiane, ma anche il presidio di un territorio dove la manutenzione è garantita proprio dall'attività di allevamento, con il lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli svolto dagli animali. Quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere lo spopolamento delle nostre valli. Soprattutto dispiace, e in pochi lo sanno, perché il settore ovicaprino nella nostra provincia vede coinvolti molti giovani che hanno fatto la scelta, difficile, di vivere in montagna allevando capre o pecore producendo formaggi, latticini e carne di antica tradizione».

Da qui il grido d'allarme che arriva da Roberto Alborghetti, 38enne presidente della sezione allevamenti ovicaprini dell'Aral (Associazione regionale allevatori della Lombardia), socio di Confagricoltura Brescia e titolare di un'azienda agricola a Rovato. «Io ho qui 170 animali pronti per la macellazione e il rischio è che restino tutti in stalla - spiega -. Non solo, temiamo di non riuscire a mandare avanti le nostre imprese, anche perché il costo dell'alimentazione, come il latte in polvere, è schizzato all'insù, da 210 a 290 euro al quintale. Tutto è chiuso e molti non fanno neppure l'asporto. Cosa possiamo fare? Non sappiamo più cosa inventarci. Difficile vendere anche ai privati, perché molti clienti storici sono anziani e con il Covid sono chiusi in casa e perché, non avendo noi gli spacci interni, dovrebbero comunque andare a prenderli al macello. Quel poco che ci viene ritirato va a due euro e mezzo al chilo, non ci permette di vivere».

È indubbio che il sistema dell'allevamento ovi-caprino è un settore di nicchia, ma molto importante anche per le ricadute in termini di gestione ambientale e di contrasto all'abbandono dei nostri territori più fragili nelle aree montane e collinari.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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