Zeb, la spia di Ghedi che ha conquistato gli Usa
Dal contratto da un milione di dollari con la PolyGram a Hollywood per arrivare a una Artist Green Card ottenuta a suon di musica
Zeb e Jovanotti live a NYC
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Negli Stati Uniti sono convinti sia egiziano o se non proprio egiziano che arrivi perlomeno dal Medio Oriente. D’altronde tutto contribuisce a fomentare l’equivoco. Dall’incarnato olivastro alla predilezione per la musica araba, di cui è uno specialista assoluto. D’altronde Zeb, dall’altra parte dell’Oceano, lo conoscono anche come «The Spy from Cairo». Questo il moniker - il principale - con cui firma parte dei suoi lavori, fra cui l’ultimo album «Arabadub», pubblicato nel 2012 e seguito da entusiastiche recensioni. E quando te lo vedi lì, sul palco del Nublu di New York, che pizzica le corde dell’oud alle spalle di Jovanotti non ti viene proprio da pensare che sia un italiano. Macché. Eppure quello che pochi sanno di Zeb è che il suo nome, in realtà, è Moreno Visini. Nato nel Bresciano e cresciuto nel comune di Ghedi.
Beh, a voler essere onesti Moreno, a Ghedi, c’è stato un gran poco. «Me ne sono andato a 15 anni, con la mia band, gli Schwear, dopo aver vinto nell’83 il DeskoMusic. Il primo premio era un viaggio a Londra e noi abbiamo semplicemente deciso di restarci».
Sono gli anni del boom. La capitale inglese è il posto dove stare se si vuole stare da qualche parte che conti. I Duran Duran fanno impazzire le ragazzine e David Bowie diventa un’icona globale. Intanto Moreno si piazza in un «buco» a Ladbroke Grove e sopravvive all’adolescenza suonando la chitarra e facendo amicizia coi vicini giamaicani, arabi e nordafricani.
Intanto, però, nella metropoli delle occasioni d’oro Moreno trova la sua via per le stelle (e strisce). «A fine anni ’80 - racconta - sono approdato in una band, The Indians, che usciva per la PolyGram Records. Allora mi sono trasferito negli Usa, dove abbiamo registrato l’album «Indianism». Avevo 19 anni e tutto andava alla grande: la band aveva un contratto da un milione di dollari, vivevo a Los Angeles e Hollywood voleva le nostre canzoni».
Avete presente «Giovani, carini e disoccupati» di Ben Stiller? Nella colonna sonora - doppio platino con 5 milioni di copie vendute - ci sono i The Indians di Zeb. E pure in «Kalifornia». Sì, proprio quel vecchio film con Brad Pitt e Juliette Lewis. Mica bazzecole. La bolla, però, esplode di colpo nel ’93, quando la crisi delle etichette Usa affonda la PolyGram e il 23enne Zeb si ritrova a NYC senza soldi né Green Card. «Mi sono imbarcato in diverse esperienze - racconta -: ho vissuto con gli zingari e ho imparato la musica araba e dell’est. Da lì il misunderstanding sulle mie origini».
Zeb molla la chitarra e diventa un eclettico polistrumentista votato alle corde mediorientali, come l’oud, il saz (la chitarra turca) e il mandolino albanese Ciftelli. E comincia una storia d’amore lunga vent’anni con la città di New York, suggellata da una Artist Green Card a sancire il valore di un’intera carriera. «Ho contribuito alla scena dance underground fondando Organic Grooves, il primo dance party a unire djs e musicisti dal vivo. Noi la chiamavamo Cosmic Music. Più recentemente ho collaborato alla Wonderwheel Records di dj Nickodemus, per cui ho remixato gli artisti più vari: da Bob Marley a Billy Holiday, da Natacha Atlas ad Omar Faruk».
E un giorno all’East Village capita che ti incontri anche Jovanotti, con Lorenzo che dopo una birra butta lì la proposta: «Perché non fai un paio di gigs con la mia band? Tu suoni l’oud, no?». E va che Zeb finisce col Jova e Mauro Pagani a registrare l’album «Oh Yeah!».
Pillole di un percorso picaresco, ancora tutto in evoluzione. «Il piano ora è formare una band per un nuovo progetto chiamato My Blue Camel, orientato al Middle eastern jazz/funk e poi suonare un po’ lì in Europa». Perché se un unico rimpianto emerge fra le trame di un percorso incredibile è in una frase appena buttata lì, sul finire della chiacchierata. «Non seguo la musica italiana. Vorrei che l’Italia seguisse un po’ me». Nemo profeta, dicono. Strano, per uno che per patria ha praticamente il mondo intero.
Ilaria Rossi
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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