Cultura

Voce graffiata, anima black: James Morrison incanta i cuori

Musica dell’anima suonata con classe e cantata con sentimento: l’artista britannico strappa applausi
JAMES MORRISON AL VITTORIALE
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Musica dell’anima, suonata con classe e cantata con sentimento, in maniera contagiosa: James Morrison soddisfa il pubblico del Vittoriale con il soul, un genere che padroneggia come pochissimi sanno fare in Europa. Non c’era il sold out, ieri sera nell’Anfiteatro, ma i posti vuoti tra platea e gradinata non erano molti: circa 1.400 gli spettatori, che hanno beneficiato dell’aria rinfrescata da temporali e grandinate che nel tardo pomeriggio avevano martoriato il Garda.

In apertura è piaciuto il giovane neo-zelandese Marlon Williams, protagonista di un set voce e chitarra. L’eco del suo opening act dello scorso anno a Milano per The White Buffalo lo aveva preceduto a Gardone Riviera, e circolava dunque curiosità tra il pubblico. Che ha potuto constatare come il ragazzo possieda una voce morbida da crooner, latrice di suggestioni armoniche, a tratti quasi angelica e usata con trasporto romanticamente fuori dal tempo.

La band di James Morrison si schiera sul palco alle 22 in punto, annunciata dallo standard «Gimme Some Lovin’», una dichiarazione d’amore per il rhythm and blues. Quando poi entra in scena il protagonista, la ritmica battente e le chitarre in spolvero illuminano «Under the Influence», perla di «Undiscovered», il disco che nel 2006 lanciò l’artista originario di Rugby nel firmamento della canzone britannica. Più tardi proporrà anche la sinuosa Title-track, ma prima, a ribadire un’attitudine che si muove leggera tra r&b e funk, piazza due brani di sicuro impatto quali «Nothing Ever Hurt Like You» (dal secondo album, «Song For You, Truths For Me») e «Feels Like the First Time».

Quindi canta la recente «Power» e chiede al pubblico di alzarsi in piedi per accompagnare l’irresistibile melodia di «I Won’t Let You Go», seguita a ruota da «I Still Need You». Dal vivo, ancora più che su disco, è evidente il debito del musicista nei confronti di Otis Redding, di Stevie Wonder, di Van Morrison, di Al Green: un patrimonio di soul e gospel anni ’60 e ’70 che egli ha fatto proprio, rielaborandolo con gusto personale e qualche vezzo vintage, favorito da una voce graffiata, resa singolare dalla pertosse che lo colpì da bambino.

A metà concerto si misura con due monumenti in un colpo solo: estrae dal cilindro «With A Little Help From My Friends» dei Beatles nella versione di Joe Cocker, e (ben supportato da una norevole vocalist) fa un figurone. Il resto è in discesa e in scioltezza, tra ballate che rubano il cuore (le risalenti «Broken Strings» e «If You Don’t Wanna Love Me»; le nuove «So Beautiful» e «My Love Goes On»), il piacevole pop di «Glorious» e di «You Give Me Something», la hit che lo consacrò. Tripletta finale che muove da "You Make It Real", cresce di tono con "Slowly" e si conclude, tra gli applausi, con la ritmatissima "Wonderful World".

 

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