Al Teatro Grande streghe e pura danza per i trent’anni di Spellbound
Era il 1994 quando Mauro Astolfi e Valentina Marini fondarono lo Spellbound Contemporary Ballet. Trent’anni dopo, i due hanno deciso di portare in scena uno spettacolo per celebrare i tre decenni: si intitola «Recollection of a falling» e arriverà al Teatro Grande di Brescia mercoledì 27 novembre alle 20 (biglietti da 22 a 34 euro disponibili su www.teatrogrande.it e al botteghino).
In realtà si tratta di due esibizioni: la prima è una coreografia di Jacopo Godani, «Forma mentis». La seconda è una creazione dello stesso Mauro Astolfi, su musiche di Davidson Jaconello, che parla di streghe e potere femminile evocando atmosfere antiche e boschive. Si chiama «Daughters and angels» e Astolfi ce ne parla in questa intervista.
Mauro, con questo spettacolo festeggiate trent’anni di Spellbound… Pensieri?
Io e Valentina abbiamo una relazione particolare con il tempo che scorre. Non ho mai l’impressione che sia passato tutto questo tempo e che sia il momento di tracciare la linea. La percezione è che abbiamo fatto qualcosa di buono e questo ci dà la spinta per andare avanti. In trent’anni abbiamo solidificato la spinta iniziale e il desiderio di ricerca, ma anche gli stati d’animo. Tutto è diventato più solido. Se fino a pochi anni fa era tutto fluttuante, ora sembra di avere scritto qualcosa che rimarrà pù a lungo, di aver tracciato una strada, un pensiero… Razionalizzando, si ha l’impressione che ciò che abbiamo costruito sia una rampa di lancio per un’altra direzione.
Che cambiamenti ci sono stati nella danza italiana, in questi trent’anni?
Purtroppo – o forse no – la danza contemporanea è eterno recupero di ciò che già esiste. La differenza sta nella capacità dei coreografi e autori – di nuova o vecchia generazione – di reinterpretare. Di riorganizzare. Di filtrare ciò che sta accadendo ora. Non vedo grandi cambiamenti e innovazione: diciamo che c’è un ricircolo intellettuale-estetico che solitamente dura sette, otto anni. Poi arrivano altre correnti che vengono chiamate «nuove», ma che sono sempre un recupero di altro. Ora vanno gli anni ’70 e ’80, per esempio, ma con una nuova pelle. Detto questo, ci sono tantissime persone che hanno qualcosa da raccontare, ma questa danza contemporanea «in evoluzione» mi è difficile vederla. Oggi viene spacciato come nuovo qualcosa che facevo quarantacinque anni fa quando studiavo danza. Si recupera. Ci sono eccezioni e ci sono autori e autrici che fanno la differenza, ma sono pochi.
Cos’è e come sarà «Daughters and Angels»?
Nasce da una lettura appassionata di un trattato di Isabel Pérez Molina pubblicato da Duoda, un centro di ricerca interdisciplinare dell’Università di Barcellona riconosciuto a livello internazionale nel campo degli Women’s Studies. Le streghe erano una mia passione. Le donne che in passato venivano perseguitate come fattucchiere erano semplicemente depositarie di una conoscenza autentica e prime organizzatrici di potere. I fenomeni repressivi avvenivano perché la loro conoscenza mortificava l’ego maschile, come oggi, e uno dei poteri acquisiti era proprio il saper nascondere qualcosa di prezioso e potente agli occhi degli altri. Ho trattato questo sapere e questa atmosfera raccontando quelle donne che avevano il potere di nascondere agli altri qualcosa.
Cosa vedremo dunque sul palco, concretamente?
In scena c’è un’immensa seta nera: le streghe la usavano quando scappavano dagli inseguitori. Attraverso la conoscenza di meccanismi naturali riuscivano a creare un nero così nero che permetteva loro di nascondersi. Il potere della donna è anche la capacità di sapersi creare il proprio nascondiglio, insieme alla capacità di curarsi degli uomini, difendendosi allo stesso tempo da loro. Evoco quindi quelle atmosfere con un lavoro astratto che cerca di rifarsi a queste ambientazioni.
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