Stefanelli: «Racconto le giovani iraniane, uccise perché appassionate della vita»

Nika, non ancora 17 anni, secondo il regime è morta «cadendo da un palazzo». Per Aida, 36 anni, medico, la «sorte» ha voluto che un amante abbandonato la spingesse giù dal cavalcavia, mentre Reyaneh era ancora teenager al suo ingresso in prigione ed è stata giustiziata, dopo sette inverni, perché giudicata colpevole di aver ucciso un uomo, che stava cercando di stuprarla.
Sono i nomi di alcune delle donne di cui Barbara Stefanelli rende testimonianza nel suo «Love harder. Le ragazze iraniane camminano davanti a noi» (Solferino editore), narrazione appassionata di una serie di storie delle ribelli iraniane ed anche di madri, fratelli, padri e compagni che ne hanno sostenuto la battaglia.
Ne abbiamo parlato con l’autrice, vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera e direttrice del magazine Sette, oggi a Brescia per la presentazione del suo libro alle 18.30 Museo di Santa Giulia in città.
Alludendo al titolo del suo libro, in che senso «le ragazze iraniane camminano davanti a noi»?
Siamo abituati ad avere una visione lontana rispetto a quello che succede in Iran e che tante ragazze e tanti ragazzi hanno portato nelle strade tra fine 2022 e inizio 2023. Magari ci siamo commossi o, a intermittenza, emozionati vedendo quelle scene, ma sempre con uno sguardo a distanza. Credo, invece, che queste giovani siano veramente vicine, in mezzo a noi, nel senso che ciò che le ha condotte a manifestare, rischiando la vita, sia il desiderio di essere libere, svelate anche a se stesse, riconosciute e accettate per quello che sono. Si tratta in genere di ragazze molto colte e preparate, profondamente consapevoli; appartengono ad una generazione che usa internet, i social network e si rispecchiano in quel che fanno le coetanee di Paesi più liberi, aspirano agli stessi diritti.
La loro non è tanto una rivolta ideologica: hanno capito di non avere nulla da perdere e che questa sia l’unica forma di riscatto possibile, perciò la perseguono con un coraggio straordinario. Noi, forse, siamo più inerti, convinti che diritti e libertà siano acquisiti definitivamente, mentre il nostro è un tempo incerto e contrastato.
Come si è documentata per raccogliere tutte queste testimonianze?
In quelle settimane e mesi dell’autunno 2022, potevamo raccogliere notizie dalle agenzie di stampa più indipendenti che si muovono in tutta la regione e moltissimo anche dai social network, specie da Instagram, Telegram e Twitter, che hanno avuto un ruolo importante. Abbiamo cominciato a selezionarle, a sceglierne alcune che ci sembravano significative; alcune donne le abbiamo incontrate direttamente in Italia, dove sono riuscite ad arrivare, con altre abbiamo stabilito contatti grazie alla rete di dissidenza iraniana.
C’è una storia che l’ha colpita di più?
Tra le storie cui mi sono più affezionata, c’è quella di Nika Shakarami, la 17enne che aveva partecipato alle proteste, trovata morta il 20 settembre; ho potuto instaurare una linea diretta con la zia, con cui viveva a Teheran. L’obiettivo era trovare un modo per scavare sotto la censura, sotto quello che arriva frammentato e tracciare un ritratto che fosse il più possibile completo e profondo di queste persone, cercando di captare tante sfumature di questa rivoluzione, da quelle più drammatiche a quelle portatrici di speranza.
In effetti, lei evidenzia che la loro rivoluzione è fatta anche di canzoni, di colori e di arte, di solidarietà...
Per me è stata un’enorme scoperta: un Paese che ha una storia, una cultura, una dedizione all’arte che pochissimi altri possiedono. Lo si è visto nelle scritte sui muri, nelle canzoni generate e nelle frasi lanciate. Tanto che - come sappiamo - la canzone «Baraye», colonna sonora delle proteste in Iran è stata premiata ai Grammy Awards ed è costata l’arresto al suo autore, Shervin Hajipour. Il brano è diventato pervasivo, rimixato anche dai Coldplay nel loro tour, a riprova che in questo moto non ci sono solo disperazione, violenza, stupri, ma anche una forza artistica straordinaria. Dal pestaggio a morte di Mahsa Amini, perché non portava correttamente l'hijab, non si può tornare indietro. Ci vorranno forse anni, ma l’Iran che si è sedimentato nel 1979 è destinato a cambiare e diventare un Paese più libero e democratico.
Cosa pensa della mostra a tema allestita in Santa Giulia?
È una mostra bellissima con un titolo emblematico, che ci «tiene in mezzo». Racconta l’Iran in un modo innovativo, attraverso l’opera di artiste straordinarie, come tra le più note Sonia Balassanian, per continuare a tenere vivo il dibattito e mostrare qual è la realtà di questo Paese e delle giovani donne che oggi vi lottano.
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