Rooney, Dickens e Perrin tra i 10 libri consigliati per Natale dal GdB

A dicembre si acquistano e si regalano libri, li si chiede a Santa Lucia e li si legge sotto strati di coperte, illuminati dalle lucine dell’albero di Natale. In effetti questo bookclub di dicembre è particolarmente confortevole, anche se ci sono storie ambientate in climi freddi, spie e sentimenti luttuosi.
I giornalisti e le giornaliste della redazione del Giornale di Brescia hanno letto tante cose diverse: per questo mese consigliano nuove uscite piuttosto attese (Francesca Sandrini ha letto per noi «Intermezzo» di Sally Rooney, mentre Ilaria Rossi si è dedicata a «Tatà» di Valérie Perrin), i caporedattori si sono lasciati affascinare da alcune spy story e non mancano le storie natalizie.
Fun fact: ci sono due letture per chi ama l’Inghilterra vittoriana e c’è anche la prima recensione di una serie che ci terrà compagnia per diversi mesi. Il caporedattore Carlo Muzzi ha ripreso in mano tutti i romanzi di John Le Carré e ne racconterà uno al mese, spia dopo spia, partendo da quella «che venne dal freddo».
«Intermezzo»
Di Sally Rooney

(Traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, 2024, pp. 432, 22 euro, ebook 10,99 euro)
Attesissima, divisiva, generazionale, anzi no. Sally Rooney è tornata con «Intermezzo».
«Intermezzo» è una mossa degli scacchi, un farmaco contro l’insonnia, il momento della vita in cui vengono colti i due protagonisti maschili del quarto romanzo della scrittrice-fenomeno irlandese classe 1991: Ivan, campione di scacchi che a 22 anni sembra aver già raggiunto il massimo dei risultati agonistici; e Peter, trentaduenne avvocato di successo eppure profondamente inquieto. Ivan e Peter sono due fratelli e hanno appena perso il padre. Il rapporto tra loro è discontinuo, sofferto.
Accade che Ivan s’innamori ricambiato di una donna di 14 anni più vecchia di lui, mentre Peter si divide tra la storica, amata fidanzata, affetta da una malattia che le impedisce di avere una vera relazione con lui, e una ragazzina squinternata. Una storia improbabile e un triangolo per certi versi inverosimile che si alternano nei capitoli di Intermezzo e s’incrociano nei dialoghi senza virgolette tipici di Rooney e nei pensieri dei fratelli e delle loro donne. Pensieri su quei sentimenti per cui l’autrice è molto amata dai lettori della sua generazione (e dal pubblico delle serie tv tratte da due romanzi dei suoi) ma non solo.
In «Intermezzo» infatti ci sono almeno altri due temi degni di nota: la vita già vissuta, già «andata» (si sarebbe potuta vivere diversamente? E come?) e la normalità (essere normali non significa forse conformarsi a un modello dominante?). Temi tutt’altro che esclusiva dei millennial.
Peccato che non siano esplorati come potrebbero, soprattutto il secondo, legato all’interessante figura di Ivan. E se suona posticcio il discorso di quest’ultimo su clima-economia-povertà (quasi un tributo all’attualità), deludono le riflessioni banali di Margaret, la donna che rompe gli schemi mettendosi con lui. Ancora: troppe descrizioni per giustapposizione d’immagini finiscono per stancare e sembrare una scorciatoia (tra l’altro, c’è un eccesso di foglie secche); e le scene spicy risultano ripetitive, un po’ meccaniche e a tratti involontariamente comiche.
Eppure il romanzo scorre per oltre 400 pagine e, arrivati alla fine tra approvazione e insofferenza, ci si commuove. Fenomeno Rooney.
Francesca Sandrini, vicecaposervizio Cronaca
«Tatà»
Di Valérie Perrin

(traduzione di Silvia Castoldi, e/o, 2016, pp. 608, 19,95 euro, ebook 14,99 euro)
L’ultimo romanzo del fenomeno editoriale Valérie Perrin è approdato nelle librerie italiane nella seconda metà di novembre. Sarà forse un caso, ma risulta in qualche modo inevitabile un rimando alla ricorrenza del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
È rosso il filo che punteggia e ordisce la trama di «Tatà» e sospinge la narrazione pur nei suoi diversi piani. I maltrattamenti in famiglia, le relazioni abusanti, finanche il femminicidio non sono forse la sostanza di questo romanzo costruito come un giallo, ma sono il substrato che ne approfondisce il significato. È questa una caratteristica della sempre capace Perrin, che ha mantenuto la promessa di sfornare un altro bestseller, senza deludere le altissime aspettative dei lettori catturati fin dal suo clamoroso esordio, con «Cambiare l’acqua ai fiori».
Intrigante l’incipit: Agnès, regista di fama internazionale costrettasi a uno iato in carriera dopo il naufragio della sua vita sentimentale, riceve una telefonata spiazzante. La zia Colette (la tatà del titolo) è ri-morta. Nel senso che sarebbe morta nonostante il suo funerale sia stato celebrato tre anni prima. Scaturisce da qui un’indagine che potremmo definire genealogica, che riporta Agnès alle origini della sua affascinante e complicata famiglia. A complementare il lavoro investigativo ci sono le audiocassette lasciate dalla zia, che in prima persona disvela i misteri di una vita semplice solo in apparenza. (Ma non lo sono forse tutte?).
È qui che la trama si pluralizza, i piani si moltiplicano ed esplode il talento di Perrin nel tenere insieme una, cento, mille storie diverse, affini e collegate. Ci sono l’amore lecito e l’amore proibito, la filiazione naturale e quella di cuore, la dedizione e la sopraffazione, l’olocausto e la pedofilia: tutto insieme e mai troppo, per una miscela che sobbolle lenta e dà vita a una leccornia sapientemente impiattata.
Il suo stile di scrittura, francese che più francese non si può, è una maledizione e un dono: può piacere poco, moltissimo o non sempre. Ma è certamente un ulteriore marchio della fabbrica di bestseller che sembra essere la Perrin. C’è anche molto di autobiografico nel romanzo, a partire dalla sua carriera cinematografica come sceneggiatrice e il rapporto col celebre marito regista (che nel libro è un attore).
Oltre seicento pagine che si divorano come un croccante, da regalarsi e da regalare prima che finisca dicembre.
Ilaria Rossi, redattrice Cronaca
«La lega degli Straordinari Gentlemen»
Di Alan Moore e Kevin O’Neill

(traduzione di Michele Foschini, Bao editore, 2019, pp. 192, 19,95 euro, ebook 9,99 euro)
Se cercate la risposta letteraria ai particolarmente in voga supereroi Marvel e DC siete nel posto giusto. Se anche voi, come il fumettista Alan Moore, preferite i villain e gli antieroi ai personaggi senza macchia con l’armatura splendente e il cavallo bianco allora siete davvero nel posto giusto. L’autore inglese, già molto noto per capolavori del calibro di «V per Vendetta», «Watchmen» e «From Hell» (diventati tutti film di successo), a cavallo del 2000 ha prodotto una serie intitolata «La lega degli Straordinari Gentleman».
Si tratta di una graphic novel in due volumi (ora allungata a quattro con speciali e spin-off) che riunisce alcuni grandi personaggi dei romanzi gotici e d’avventura di fine ’800 per salvare il mondo. Mina Murray di Dracula, Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, l’uomo invisibile di Wells, il capitano Nemo di Verne e Allan Quatermain di Haggard, inseriti nell’universo di Sherlock Holmes, si lanciano in una serie di avventure che mescolano sapientemente fatti storici, leggende e finzioni letterarie dell’epoca.
Jacopo Bianchi, redattore Teletutto
«Canto di Natale»
Di Charles Dickens

(traduzione di Stella Sacchini, Oscar Mondadori, 2024, pp. 152, 10,45 euro)
«Canto di Natale» ha segnato più epoche e in effetti è una piccola perla che brilla nella produzione di Charles Dickens. Pubblicata nel 1843, è una storia breve che affronta temi senza tempo come la redenzione, l’empatia e l’importanza delle connessioni umane. Per bambini, dunque, ma non per forza.
La trama è nota: Ebenezer Scrooge, un uomo avaro e freddo, viene visitato nella notte di Natale da tre spiriti del passato, del presente e del futuro. Attraverso queste visite la sua vita si svela davanti ai suoi occhi in maniera molto cinematografica, ed è proprio grazie a questi flashback e flashforward che nella sua semplicità Dickens riesce a dipingere il quadro complesso della Londra vittoriana con le sue contraddizioni sociali. Un’ambientazione perfetta per una lettura invernale che faccia entrare del piacevole freddo nelle ossa con una tazza fumante tra le mani.
La scrittura è immediata e profondamente emotiva, ma anche ironica a tratti, con quel ritmo che contraddistingue Dickens: ogni frase sembra costruita per essere letta ad alta voce, quasi fosse un monologo teatrale o una favola per adulti. Anche per questo è ideale da ascoltare in forma di audiolibro (gratuitamente su RaiPlay Sound).
Sara Polotti, redattrice Web
«The answer is no»
Di Friedrik Backman

(Traduzione di Elizabeth Denoma, Amazon Original, 2024, pp. 68, ebook 1,99 euro, incluso gratuitamente con Prime)
Nessuno meglio di Fredrik Backman sembra conoscere le dinamiche che regolano i rapporti umani. Nessuno meglio di Fredrik Backman le sa raccontare. Arguto, divertente, incredibilmente brillante, assolutamente contemporaneo e sciocco. Lo scrittore svedese, autore della trilogia della «Città degli Orsi», come de «L’uomo che metteva in ordine il mondo» – magistralmente trasposto sullo schermo da Tom Hanks – e «Mia nonna saluta e chiede scusa», ci regala un racconto breve – brevissimo – che è una delizia da leggere al volo. Al momento disponibile solo in lingua inglese (e tedesco) su Kindle al prezzo di 1,99 euro, «The answer is no» attinge alle tematiche care a Backman – la famiglia, le relazioni, la straordinaria ordinarietà degli esseri umani – per produrre un piccolo capolavoro. Inconfondibile lo stile, con quel gusto anticipatorio delle evenienze che non è mai ridondante, e la capacità di condensare in frasi lapidarie situazioni emotive in apparenza indescrivibili. La vicenda di Lucas e della padella che gli ha rovinato la vita anticipano il nuovo romanzo di Backman previsto in estate.
«Visto che è Natale, puntavo a scrivere qualcosa che incarnasse lo spirito delle feste. Così questa è una storia su quella singola, meravigliosa e unica qualità che tutti gli esseri umani, in fondo in fondo, possiedono: la capacità di irritarsi a vicenda». Fatevi un regalo, leggetela.
Ilaria Rossi, redattrice Cronaca
«Il popolo è immortale»
Di Vasilij Grossman

(Traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, 2024, pp. 285, 20 euro, ebook 13,99 euro)
Non ho ancora finito il libro. Questo consiglio di lettura potrebbe quindi risultarvi monco, ma difficilmente le pagine mancanti potranno far cambiare il mio giudizio. «Il popolo è immortale» è assolutamente un libro che rientra nella narrativa di guerra. La guerra più cruda vista finora. Quella che ha ucciso più di 60 milioni di persone.
Un racconto uscito a puntate su «Krasnaja Zvezda» – letteralmente «Stella Rossa», il maggior organo di comunicazione del ministero della Difesa sovietico – nell'estate del 1942, è poi diventato un libro in cui emergono, con precisione, le caratteristiche dei soldati dell’Armata Rossa alle prese con l’invasione nazista. Una fase cruciale della seconda guerra mondiale. La resistenza del popolo sovietico prima di respingere i tedeschi e liberare il fronte orientale.
Lo scritto di Grossman può tornare utile per indagare una parte di storia che troppo spesso nel mondo occidentale viene dimenticata. E scritta da chi al tempo era corrispondente di guerra. «Non c’è forza in grado di sconfiggere le idee di Marx e Lenin», si legge in un passaggio del libro che dimostra l’attaccamento viscerale di Sergej Bogarëv (il protagonista e forse alter ego dell’autore) all’ideologia comunista. Allo stesso modo tra le righe de «Il popolo è immortale» si possono trovare emozioni forti, a volte sottovalutate, che meritano di essere provate.
Stefano Zanotti, redattore Web
«L’agente segreto»
Di Andrea Ferrari

(Bollati Boringhieri, 2020, pp. 128, 15,20 euro, ebook 8,99 euro)
L’agente è, etimologicamente parlando, colui che agisce. Il fatto che lo faccia più o meno segretamente, un mero accidente. Nelle pagine e nelle atmosfere del romanzo «L’agente segreto» di Andrea Ferrari, a guardare la questione sotto questo profilo, c’è allora un profondo squilibrio, che di segretezza ce n’è a non finire, ma di azione quasi nulla. Eppure sta proprio in questo tempo sospeso il motore narrativo della storia, maledettamente francese per stile, ambientazione e respiro, tanto che non c’è da farsi confondere né dalla nazionalità italiana dell’autore, né tantomeno dal retrogusto americano del quadro impresso in copertina (per la cronaca «The man at the red sign» dell’argentino Fabian Perez).
Il protagonista è un operatore dei servizi di intelligence, per dirla in altra maniera, in missione: l’incarico affidatogli è quello di aspettare, all’alberghetto (assolutamente mediterraneo) affacciato sul mare di una riviera che pare quella tra Menton e Saint-Raphaël, altresì nota come Costa Azzurra, l’arrivo di una lettera. In questa attesa che pare infinita, spacciandosi per chi non è, il protagonista affoga in una noia assolata, per ovviare alla quale interagisce con i personaggi che popolano il piccolo hotel. Il titolare che in un silenzio quasi inespugnabile si occupa della pompa di benzina di famiglia, la moglie di quest’ultimo, Delphine, che nella routinaria quotidianità fra camere e clienti, svela a poco a poco inattese frequentazioni. E la giovanissima Fiorile, figlia dei proprietari che cerca di sedurre il protagonista, a sua volta sedotta anzitutto dalla propria giovinezza e dal compiacimento insopprimibile di piacere. Ma c’è anche la Signora del Negozio di biancheria del borgo vicino, che accende di passione il più che cauto agente segreto di mezza età. Il quale ha tempo – e quanto – per ripercorrere infanzia e giovinezza, nella libreria paterna che pure è luogo di segreti e verità celate (in cui ci pare di poter leggere un fugace omaggio all'omonimo romanzo di Conrad).
Con grande leggerezza e uno stile asciutto, Ferrari cesella intrecci fra personaggi che hanno l’anima di certi soggetti alla Dard (o persino alla Simenon), la cui vita che a tutta prima ci risulta anonima, svela doppi inattesi, ombre, segreti più o meno inconfessabili, sino all’epifania che incendia il finale. Che risolve magistralmente una storia intrisa di profumi mediterranei e disincanti senza passaporto.
Gianluca Gallinari, caporedattore
«Il desiderio di essere come tutti»
Di Francesco Piccolo

(Einaudi, 2018, pp. 268, 11,80 euro, ebook 7,99 euro)
Tutti i libri posso dire che mi abbiamo «cambiato la vita», qualcuno di più. Cito il più recente, anche se risale a una dozzina d’anni addietro: «Il desiderio di essere come tutti» di Francesco Piccolo.
Ne ho apprezzato il tono, la scrittura, le riflessioni, alcune delle quali – lo scrivo senza imbarazzo – hanno cambiato l’uomo che sono e il modo di intendere il mondo, introducendo un sentimento di tolleranza che prima non avevo, a cominciare dalla politica, smettendola di vedere tutto bianco o nero e riconoscendo un valore, una rispettabilità in chiunque altro.
Un atteggiamento che vale anche nella vita privata. Cerco di spiegarlo. C’è un passaggio che mi è rimasto impresso, quando racconta della compagna, la madre di suo figlio, che lui non chiama per nome proprio, definendola invece con una locuzione: «Che sarà mai?». La signora «Che sarà mai?». Una persona che alla pesantezza preferisce la lievità, al covare il lasciar correre, riducendo il tutto all’essenzialità della realtà oggettiva, senza caricare di altro significato. «Luigino si è rotto il braccio? Che sarà mai, s’è rotto un braccio...». «Il bicchiere è caduto e ha sporcato di vino il tappeto? Che sarà mai, s’è sporcato il tappeto…». «Ci siamo svegliati tardi e abbiamo perso l’aereo? Che sarà mai, abbiamo perso l’aereo...».
Una lezione che non ho solo imparato, ma che mi si è tatuata dentro. Tanto da ricordarmi ogni giorno che il signor «Che sarà mai» devo essere io.
P.s.: Non è vero. Cioè, è vero che vorrei esserlo io, ma adesso. Per i primi anni, dopo aver letto il libro, pretendevo che lo fosse chi mi stava vicino, che diventasse il contrario di pesante, greve, insistente, pignolo. Poi ho compreso che attenderselo dagli altri è sbagliato, prima ancora che arduo: l’unico cambiamento che si può pretendere è quello declinato in prima persona, allo specchio.
Giorgio Bardaglio, vicedirettore
«Le verità spezzate»
Di Alessandro Robecchi

(Rizzoli, pp.276, 2024, 15,20 euro, ebook 9,99 euro)
Monterossi, chi era costui? Alessandro Robecchi lascia (momentaneamente?) ai box il suo personaggio più celebre per mettere al centro di un nuovo intrigo un regista d’antan (Manlio Parrini), che decide di tornare dietro la macchina da presa per svelare i retroscena di un cold case risalente agli anni del Regime fascista, la morte violenta dello scrittore Augusto De Angelis. Peccato però che finisca, suo malgrado, invischiato in un omicidio dei giorni nostri, quello dell’anziana vedova Bastoni, proprietaria della casa in cui Parrini vive.
Capita così che passato e presente si fondano, con la consueta giocosa maestria di Robecchi nel gestire personaggi a cavallo tra due epoche, ricchi di frenesie, debolezze, fragilità assortite. Un caleidoscopio dove la settima arte è lo sfondo ideale per rievocare fantasmi dei tempi bui, fatti di censura e soprusi. Che si specchiano mirabilmente in un presente tutt’altro che rassicurante, ma solo… confezionato meglio.
Rosario Rampulla, vicecaporedattore
«La spia che venne dal freddo»
Di John Le Carré

(Traduzione di Attilio Veraldi, Oscar Mondadori, pp. 289, 9,90 euro, ebook 7,99 euro)
Le storie di spie hanno sempre appassionato i lettori e spesso sono state trame di film, mentre oggi diventano serie tv. Ma qual è il romanzo per eccellenza sulle spie? Difficile dirlo, ma un autore ha saputo più di tutti raccontare la guerra fredda con sapienza. John Le Carré, britannico, spia a sua volta, ma che, una volta bruciato da uno dei doppiogiochisti di Mosca, il famigerato Kim Philby, si è dedicato a raccontare lo spionaggio attraverso i romanzi. Da questa puntata del bookclub ho deciso di iniziare la rassegna mensile dedicata alle opere proprio di Le Carré.
Il suo primo grande ed indiscutibile successo è sicuramente «La spia che venne dal freddo» del 1963; certo, prima di quello aveva pubblicato già due volumi («Chiamata per il morto» e «Un delitto di classe»), ma questo libro è stato particolarmente fortunato probabilmente per varie ragioni. La prima è che, a differenza del suo contemporaneo Ian Fleming e del suo personaggio James Bond, i protagonisti di Le Carré si muovono in un mondo assolutamente reale e le situazioni che si trovano a fronteggiare sono assolutamente realistiche. Il titolo originale,« The spy who came in from the cold», richiama direttamente la cold war, la guerra fredda, più di quanto lo faccia la traduzione in italiano.
C’è poi l’ambientazione del romanzo: Londra e Berlino est nel momento in cui il muro era stato appena eretto, quindi al momento della pubblicazione vi fu un elemento di grande attualità. Curiosamente ne «La spia che venne del freddo» l’Unione Sovietica e il Kgb restano sullo sfondo, gli avversari sono piuttosto la Germania est e la Stasi, la polizia segreta e il suo controspionaggio.
Come spesso capita nei romanzi di Le Carré il protagonista principale, nello specifico Alec Leamas, è un eroe tragico, quindi non una fredda spia, un killer o un freddo calcolatore, ma un uomo vicino alla fine della sua carriera da agente segreto che, tuttavia, è pronto ad un’ultima grande battaglia. Nel romanzo compare anche se solo per un cameo George Smiley, la figura chiave della prima parte della produzione letteraria di Le Carré e protagonisti di tutti i romanzi che raccontano la prima delicatissima fase della guerra fredda in cui Patto di Varsavia e Comunità Atlantica si sono fronteggiate senza esclusione di colpi. In quegli anni il politologo francese Raymond Aron aveva formulato il paradigma «Pace impossibile, guerra improbabile» per descrivere il rapporto tra l’Occidente e l’Unione Sovietica e i suoi alleati. In questo orizzonte e all’ombra del muro di Berlino si muove la spia che venne dal freddo; difficile pensare che la cosa possa finire bene.
Nel 1965 dal romanzo è stato tratto l’omonimo film con Richard Burton, oggi visibile su Amazon Prime.
La prossima recensione sarà dedicata a «Lo specchio delle spie» (titolo originale «The looking glass war»).
Carlo Muzzi, caporedattore
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