Regina Coeli come Canton Mombello, padre Trani: «Situazione disumana»

Regina Coeli e Canton Mombello sono distanti 555 chilometri ma le loro sbarre hanno lo stesso sapore. E disegnano un’unica grande cella, dentro la quale si vive la solitudine, il disagio, la promiscuità. Hanno parecchio in comune, le due case circondariali: entrambe risalgono al XIX secolo e risultano totalmente inadeguate, entrambe sono piene di esseri umani fino a scoppiare, entrambe sono integrate nel tessuto urbano delle rispettive città - Roma e Brescia. E anche i drammi vissuti dentro quelle pareti di cemento e ferro sono gli stessi. Effetti prevedibili di un’emergenza che nessuno vuole vedere, in una visione spesso discriminatoria nei confronti di chi ha sbagliato e sta pagando (o magari ha già pagato).
Testimone
Da ormai cinquant’anni padre Vittorio Trani, cappellano penitenziario di Regina Coeli, è testimone delle trasformazioni avvenute - e di quelle mancate - nel mondo del carcere, che per tanti resta ancora un mondo sconosciuto da tenere a distanza. E proprio a questa parte dell’opinione pubblica padre Trani si rivolge in un ampio dialogo con i due giornalisti Stefano Natoli e Agnese Pellegrini messo nero su bianco del libro «Come è in cielo così sia in terra» (edizioni Paoline, 2022). I suoi racconti e le riflessioni maturate nel corso di una quotidiana condivisione di vita con le persone detenute fanno luce sull’aspetto umano dell’esperienza detentiva e sulla necessità di approcciarsi ai temi della persona e dell’esecuzione penale nel solco tracciato dalla Costituzione: il principio della rieducazione di chi ha sbagliato, ai fini del pieno reinserimento nel contesto sociale. «È una questione di dignità e civiltà, oltre che un vantaggio per tutta la società», dice padre Vittorio Trani alla presentazione del libro organizzata nella Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, chiesa «nazionale» dei lombardi residenti a Roma guidata dal bresciano monsignor Giulio Sembeni.
Nel suo libro, che pare un testo di formazione sociale, Trani prova a instillare il seme di una vera e propria rivoluzione culturale che passa persino dal lessico. Padre Vittorio sostituisce infatti il termine «cella» a «stanza di pernottamento», «detenuto» con «recluso» o «ristretto». Il tutto nel tentativo di restituire dignità a chi è costretto a stare chiuso in un carcere troppo spesso lontano dai dettami costituzionali.
Dignità della persona, stigma pregiudiziale di chi è stato in carcere e giustizia riparativa. Insiste molto su questi aspetti, l’autore del libro, interpretando con una visione privilegiata temi particolarmente attuali. «In carcere ogni atto deve ricevere approvazione a vari livelli, sia interni alla struttura sia del magistrato di riferimento. E questo certo è avvilente e deresponsabilizza la persona. Spesso il risultato è che quando si esce dal carcere si è peggiori di quando ci si entra. Il percorso delle sezioni a “custodia attenuata” potrebbe allora essere un passo importante per far assaporare alla persona un minimo di senso di responsabilità». Questo perché, si legge nel libro, i detenuti sono persone che hanno sbagliato e che per questo sono state private del bene più prezioso per un essere umano: la libertà. «Entrando in carcere, però, si perde nei fatti anche ogni altro diritto. Questo non è giusto. È andare oltre il senso della pena. Nessun essere umano ha il diritto di annullare un altro essere umano. Nessuno, in poche parole, può fare tabula rasa della Costituzione».
Perché l’onta del carcerato può estendersi come un velo nero sugli occhi della società anche dopo aver scontato la pena. «Che uno sia stato dichiarato innocente, che sia una persona che abbia messo alle spalle il passato, conta poco - conclude padre Vittorio -. Ciò che conta è il fatto che abbia vissuto questa misteriosa e degradante esperienza. È un pregiudizio più diffuso di quanto si possa pensare». Che fine ha fatto il diritto all’oblio, allora?
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