Cultura

Quando il mercante bresciano vendeva come schiavo un bimbo etiope di 4 anni

Eccezionale documento nella rassegna al Mudec di Milano sino al 13 settembre
Andrea Carnovali detto il Piccio (1804-1873): Ritratto del conte Giuseppe Manara col suo servitore etiope, 1842
Andrea Carnovali detto il Piccio (1804-1873): Ritratto del conte Giuseppe Manara col suo servitore etiope, 1842
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È un mercante bresciano del XVI secolo, Giovanni «de Drivalis», il protagonista della pergamena del 1486 posta all’avvio del percorso espositivo della mostra «La voce delle ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale (XVI-XIX secolo)», curata da Carolina Orsini, Sara Rizzo e Luca Tosi, in corso al Mudec - Museo delle Culture di Milano, in via Tortona 56, fino al 13 settembre (ingresso gratuito, per informazioni sempre aggiornate sugli orari: www.mudec.it).

L’esposizione non si configura - affermano i curatori - come una «mera raccolta di dipinti, sculture e oggetti d’arte applicate, ma come un primo tentativo di individuare modalità differenti di raffigurazione dell’altro nell’ambito geografico specifico del Nord Italia, svelando i canoni e gli stereotipi di questo tipo di immagini, ma anche trovando, quando è stato possibile, le persone in carne e ossa con le loro vicende umane e il loro ruolo nella società dell’epoca».

Il primo di questi personaggi storici è, appunto, un bresciano, Giovanni «de Drivalis», che nel 1486 - racconta la curatrice Rizzo - vende al nobile milanese Gaspare Ambrogio Visconti un bambino etiope, Dionisio, di quattro anni, come schiavo, al prezzo di 14 ducati d’oro. Nella seconda metà del ’400 la presenza di schiavi dall’Africa nel Nord Italia, specie a Milano, è legata «a ragioni extraeconomiche, tra cui il prestigio sociale, come fanno intuire numerose testimonianze iconografiche di servitori neri al servizio degli stessi duchi. Dionisio - continua la Rizzo - viene acquistato dal nobile per diventare probabilmente un servo domestico».

Il nostro concittadino, quasi a giustificarsi, giura sui Vangeli che il bambino era già schiavo al momento dell’acquisto. In ogni caso il bambino, seppur presente alla stesura dell’atto di vendita e nonostante i giuramenti religiosi, viene «trattato alla stregua di ogni altra merce».

Sin dal XIII secolo lo schiavismo è la via prioritaria di arrivo di persone di origini africane in Italia attraverso la tratta del Mediterraneo. Nelle aree settentrionali gli schiavi non vengono impiegati in lavori usuranti, ma per lo più servono quali domestici in case nobiliari, come ci attestano anche i quadri presenti in mostra.

Pergamena. Il documento di vendita di uno schiavo da parte del bresciano Giovanni «de Drivalis», 1486
Pergamena. Il documento di vendita di uno schiavo da parte del bresciano Giovanni «de Drivalis», 1486

Alcuni esempi

Nel «Ritratto di Laura Dianti con paggio» di Tiziano, risalente al 1522-1523 e copiato decenni dopo dal fiammingo Sadeler, l’emiliana Laura Dianti è accompagnata da un giovane servitore nero. È questa - precisa il curatore Tosi - «la prima volta in cui un artista europeo decide di inserire al fianco del ritrattato un personaggio di origine africana nel ruolo del paggio, così da esaltare il ruolo e la ricchezza del protagonista».

Si vedano anche a mo’ di esempio i due ritratti del conte Giuseppe Manara, nobiluomo di Cremona, accompagnato da un servitore etiope, realizzati da Andrea Carnovali detto il Piccio nel 1842. «Leggenda e tradizione».

Dopo questa sezione («Ombre senza voce»), la mostra si snoda in una seconda dedicata ad opere artistiche in cui figure originarie dell’Africa sono protagoniste di episodi religiosi o leggendari (da qui il titolo della sezione: «Leggenda e tradizione»). Si passa poi ad affrontare il tema del corpo nero che diventa protagonista principalmente per motivazioni religiose. La conversione al cristianesimo fa guadagnare infatti alla persona nera un posto centrale nella rappresentazione artistica. I lavori di Imani. La mostra si chiude con i lavori contemporanei di Theophilus Imani, ricercatore visivo italiano di origine ghanese.

Si tratta di dittici in cui sono accostati dettagli di dipinti antichi ad opere fotografiche recenti, e che mirano a restituire l’alterità al di là della retorica «rimettendo al centro le persone». Ogni dittico - ci ricorda l’artista Imani - invita non semplicemente a vedere, ma a guardare, ricordandoci come la «nerezza» non sia «vuota», non viva nell’ombra, e «si disveli nella sua pienezza all’occhio di coloro che sanno mettersi in ascolto».

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