Campiello: vince Marasco, a Pariani il premio carriera

Wanda Marasco con «Di spalle a questo mondo» (Neri Pozza) ha vinto per un soffio, con 86 voti il 63° premio Campiello. I voti espressi sono stati 282 su 300 votanti della giuria popolare di lettori anonimi. Al secondo posto Fabio Stassi con Bebelplatz (Sellerio), 83 voti. Al terzo Monica Pareschi con Inverness (Polidoro), 58; quarto Alberto Prunetti con Troncamacchioni (Feltrinelli), 36. Ultimo Marco Belpoliti con Nord Nord (Einaudi), 19 voti. A Laura Pariani il premio alla carriera. L’abbiamo intervistata così come, in precedenza, nell’ultimo mese, abbiamo fatto con tutti i finalisti del Campiello.

«Primamà» (La nave di Teseo, 224 pp.18 euro), il 35esimo romanzo della scrittrice, drammaturga e artista visuale Laura Pariani, nasce, come lei stessa premette, «da una riflessione sul mio modo di raccontare, che mi viene da lontano: dall’uso della voce delle narratrici della mia infanzia. Il testo si è sviluppato in una sorta di dialogo con tre persone care: mia Nonna Giuàna, che mi lesse la Genesi quando avevo 5 anni, la Biszia Marién infarcita di cultura cinese e Doña Rosa, la compagna mapuche del mio nonno argentino. Tutte e tre con quella saggezza popolare, nel senso più radicale del termine, basata su valori universali non identificabili con una particolare cultura e una particolare alfabetizzazione. Ho cercato di pormi di fronte a queste tre narratrici della mia infanzia-adolescenza in posizione di allieva, di apprendista di vita, in modo che loro continuino a vivere nelle storie che mi hanno tramandato».
Signora Pariani, la Genesi che racconta ha qualcosa di fiabesco ma anche di rivoluzionario in un contesto che, oltre a riabilitare il ruolo della donna sminuita dal patriarcato, vuole affidarle una priorità che finora le è stata negata?
Nella Genesi il Padreterno addormenta Adamo e poi gli tira fuori dalla costola la donna; e numerosi artisti ci hanno lasciato l’immagine di un’Eva nuda che guizza fuori, come una biscia, da un maschione muscoloso immerso nel sonno... Come se la donna fosse una riduzione del maschile. Nelle pagine seguenti, a parte l’episodio del serpente e della cacciata dall’Eden, la Bibbia tace di Eva. La menziona per il fatto di aver partorito 140 figli, ma non parla nemmeno della sua morte. Da qui mi è venuta la voglia di scriverne: in fondo è la Madre di tutti noi. La Prima. E ho cercato di amplificare il mito rigido di Adamo ed Eva in un universo più colorato che porta il mito nel tempo nostro: parlando della libertà di Eva che è la libertà di tutte le donne (e non solo), raccontando la sua forza immaginativa, i suoi dolori, il mondo della narrazione che lei inventa.
La sua Eva dagli occhi «brillosi» con quale spirito oggi riecheggia e si afferma?
Con lo spirito di una narratrice, perché raccontare è un atto di Resistenza contro il tempo. Raccontare non è solo ricordare, ma anche cercare una soluzione a una domanda. E siccome le risposte non si trovano, allora si continua a raccontare… Proprio per questo ho fatto di Eva, la Primamà, una donna capace di chiarire le situazioni con le sue storie-belòrie e un’artista che impasta figure nell’argilla per rappresentare la famiglia nelle sue genealogie.
La terra «senza litigio» che la sua Genesi evidenzia come luogo di serenità sarebbe utile anteporla oggi ai tanti guerrafondai che stanno facendo del pianeta una discarica di morte?
La mia Genesi è la terra dove si parla, anzi si narra. Credo che tutti possano capire che il mondo non può essere spiegato unicamente attraverso i titoli dei giornali, le dichiarazioni dei politici o i grafici dei mercati finanziari. Perché noi non siamo fatti solo di economia e di politica. Siamo fatti anche di sentimenti, di paure, di dolori, di fragilità. E qui la letteratura entra in gioco a far valere la sua «esperienza»... Credo che se i politici avessero letto più Cechov, Dostoevskij, Proust, Faulkner, Saramago, il mondo sarebbe diverso.
Quello che lei racconta appare a volte come un mondo lontano, da «albero degli zoccoli», un ambiente in cui fermenta un’umanità semplice consapevole della sua umiltà. Che cosa resta oggi di quel mondo duro ma generoso?
Della Lombardia delle brughiere non resta nulla, ma a volte ritrovo certe sue atmosfere in altri continenti, in culture lontane in cui non c’è ancora la frenesia dell’accumulazione. La letteratura può farli rivivere sulla pagina e schierarsi con i mondi «perduti». La storia ufficiale è scritta dai vincitori, ma le storie le hanno sempre raccontate i vinti. E sono più interessanti e veritiere.
L’uso del dialetto lombardo, è quasi un marchio di autenticità in questo libro in cui le risonanze linguistiche acquistano una dimensione specifica e fondamentale.
In tutti i miei libri la lingua è elemento vitale: un misto di lingue, dialetti, e espressioni inventate. Immaginare come potesse parlare Eva è stato un piacere insolito. Ne è venuta fuori una lingua parlata cavernosa, quasi disumana con l’uso della kappa, perché le parole fossero più solide, più pesanti e sonore delle nostre. È una lingua che riecheggia il mio dialetto materno: infatti, come se l’intensità del mio personaggio e la mia potessero sfiorarsi, faccio vivere Eva nella valle del Ticino, nella brughiera umida e scura della mia infanzia. Ché condividere con Primamà il paesaggio del mio passato me la fa sentire come una persona di famiglia.
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