Cultura

Populismo globale: sfida all'universo liberal-democratico

Il rischio per i valori, ma anche quello che lo stigma venga usato per aggirare i problemi sollevati
Il fenomeno del populismo non conosce più confini
Il fenomeno del populismo non conosce più confini
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«Democrazie populiste. Storia, teoria, politica» è il saggio che Paolo Corsini firma per Morcelliana Scholé (304 pagine, 20€). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo una sintesi della Premessa.

Il libro si sofferma sulla «ragioni dell’affermazione populista» riconducibili alla crisi delle promesse democratiche dell’Europa, alla globalizzazione neoliberista, ai fenomeni immigratori.

È consuetudine invalsa tra gli studiosi che si misurano con il populismo contemporaneo evocare il cosiddetto «complesso di Cenerentola», la favola del principe che non trova mai il piede perfetto per la famosa scarpina. Questo per evocare le difficoltà di una concettualizzazione appagante nonché la varietà e complessità di un fenomeno sviluppatosi in diverse fasi storiche ed oggi alla ribalta sulla scena politica, tanto che pare lecito parlare di «ondata», di «momento» o addirittura di «epoca populista».

Siamo infatti in presenza di una indubbia globalizzazione del populismo, ormai esteso ad ogni latitudine: una sfida all’intero universo liberal-democratico in un saliendo fatto di drammatizzazione dello scontro. Se n’è avuta una prova nell’occasione delle ultime elezioni europee, rispetto alle quali i termini sono stati fissati quasi nella logica di una contrapposizione di civiltà. Come, ad esempio, ha avuto modo di sostenere il leader leghista Matteo Salvini, che ha attribuito alla competizione il significato di un «referendum tra la vita e la morte, tra il passato e il futuro, tra Europa libera e Stato islamico basato sulla precarietà e la paura».

Dunque uno scontro retto su di un’ideologia dell’ostilità dei «popoli europei contro la casta di Bruxelles» - così sempre Salvini - capace di incorporare un’intera politica, volta a chiamare a raccolta tutte le forze non solo anti-Unione Europea, ma pure anti-europee, se per Europa si intende pure un deposito di valori, una tradizione culturale, un modello politico, un saldo ancoraggio alla civiltà occidentale. Un disegno, quello dell’esponente italiano che si è candidato a frontman dello schieramento nazional-populista, teso a compattare le diverse anime del populismo antieuropeista, tanto sovranista quanto nazionalpopolare, e, nel contempo, volto a calamitare il consenso anche di quelle forze euroscettiche ed eurocritiche penalizzate dall’ordoliberismo dell’austerità.

Insomma le elezioni come un giudizio di Dio, una rivolta di fronte ad una umiliazione subita, ad un soffocamento inferto dalle classi dirigenti politiche. E se è vero che l’onda populista non è straripata, resta il fatto che essa ha segnato comunque una presenza rilevante in Italia, Francia, Regno Unito, nonché nei Paesi del gruppo di Visegrad, particolarmente in Ungheria e Polonia. Peraltro, solo le forze populiste e nazional-sovraniste sono rappresentate in tutte le geografie del Vecchio continente, seppure la loro coesione sia piuttosto fragile e lacerata da faglie difficilmente componibili.

A cominciare dal nativismo insito nell’idea stessa di popolo. Nella sua unicità esso produce un cortocircuito che esacerba sì il conflitto con la Ue, ma pure alimenta contraddizioni nel nome del primato della singola sovranità nazionale e della tutela degli interessi di ogni Paese. In secondo luogo, resta la competizione tra i diversi gruppi populisti rappresentati al Parlamento, divisi come sono da divaricazioni, quali quelle concernenti il rapporto con la Russia di Vladimir Putin, le politiche migratorie, le relazioni commerciali, le strategie monetarie e fiscali. Le indubbie difficoltà di una definizione accettabile scaturiscono anche dalle asprezze di un dibattito politico assai animoso: cosicché «apostrofare qualcosa o qualcuno come populista corrisponde ad un’accusa o, peggio, un insulto». Tanto più che oggi il termine viene usato con intento prescrittivo più che descrittivo.

Tutti populisti sarebbero coloro che criticano le politiche neoliberistiche o gli assetti costituiti, quali essi siano, per cui non resterebbe che sostenere lo status quo. E così pure le formazioni politiche di estrema destra e i loro leader, caratterizzati da forte impronta xenofoba, antieuropea, antiglobalista, per lo più nazional-sovranisti, ma pure, in alcuni casi, regionalisti, autonomisti e localisti. Un dibattito, ancora, in perenne oscillazione.

Da un lato rivendicazione, sostegno ed esaltazione. Ricorrente è il caso di leader che apertamente rivendicano come un vanto il proprio populismo in contrapposizione alla «vecchia e decrepita politica». Esemplare l’intervento del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, autoproclamatosi, al momento del varo del governo «gialloverde», «avvocato del popolo». Pure Marine Le Pen in ripetute occasioni si autodefinisce «la candidata del popolo».

Dall’altro lato denigrazione, stigmatizzazione e demonizzazione, fino ad utilizzare lo stigma populista come una sorta di scorciatoia per aggirare i problemi dai quali il populismo scaturisce, o come una leva di distrazione dell’opinione pubblica dal disfunzionamento della democrazia rappresentativa e dalla sua crisi odierna. Ne risulta oscurato l’impegno ad una caratterizzazione analitico-descrittiva sottratta a prese di posizione ideologico-valoriali, in relazione peraltro alla natura proteiforme della categoria di populismo.

Natura che la rende suscettibile di etichettature ed applicazioni a fenomeni tanto affini quanto diversi, come nel caso di altri «-ismi», quali neofascismo, razzismo, nazionalismo, separatismo. Una categoria «pigliatutto» che «tira dentro, come se appartenessero alla stessa natura, cose vecchie e nuove, i populisti russi dell’Ottocento e i qualunquisti italiani dei tardi anni Quaranta del Novecento, le suffragette inglesi dell’età vittoriana e gli elettori machisti di Donald Trump, i costruttori di muri ungheresi al comando di Viktor Orban e i ricercatori di nuove vie per l’Europa come i greci di Alexis Tsipras e gli spagnoli di Pablo Iglesias».

E, da ultimo, lo stesso papa Bergoglio, che sarebbe espressione di un «populismo gesuita». A partire da una visione olistica del mondo, nell’attuale Pontefice sarebbero riconoscibili «una storia e una formazione» alla cui base si situerebbe un cattolicesimo argentino «uscito trionfatore dalla sfida col liberalismo» e ormai spoglio dagli stessi condizionamenti del cattolicesimo liberale. Ciò come esito dell’identificazione tra religione e nazione e grazie al «riscatto dell’identità cattolica del popolo dal dominio delle élite liberali e coloniali». In sostanza un Francesco peronista, per il quale il popolo «è unito da un collante morale e spirituale, non da un patto politico razionale». Dunque un popolo prepolitico, depositario di una virtù - «virtuoso perché cristiano, e cristiano perché virtuoso» - e di una identità che «ne fanno l’unico vero popolo», un tempo in grado di sconfiggere la pretesa liberale-borghese di omogeneizzare il mondo ed oggi abilitato a contrastare la globalizzazione.

Assunti che non possono non suscitare alcune obiezioni. A partire dal fatto che Bergoglio si batte per la tolleranza ideologica e il dialogo interculturale, il pluralismo politico e il rispetto delle minoranze, l’affermazione piena della democrazia ad ogni latitudine, deideologizzando la stessa teologia della liberazione, nonché distinguendo tra politica e religione e rifiutando la retorica dello scontro di civiltà. Il Papa non «pensa chiaro, ma parla oscuro»; piuttosto pensa estremo e agisce accorto, pronunciando giudizi perentori sui populismi contemporanei come a denunciare pericoli di deriva autoritaria e totalitaria.

È per altro significativo che da settori riconducibili al tradizionalismo cattolico, assai vicini a talune componenti che diffondono la narrazione populista, gli si addebitino - l’imputazione di una colpa, di una deviazione dottrinaria - proprio confidenza col moderno, valorizzazione della soggettività, relativismo, democratizzazione della Chiesa, neoprotestantesimo, vale a dire una tra le matrici originarie del liberalismo.

In realtà, quando Francesco parla di popolo, la sua è una categoria teologica: «il popolo di Dio». C’è in lui un modello universalizzabile di acculturazione «mediante la sapienza e la pietà del popolo di Dio» incarnato nei popoli. In tutti i popoli della Terra. Dunque nulla di più lontano dal populismo organicistico, etnico, identitario, escludente. E con questo possiamo addentrarci nella nostra disamina lungo una duplice prospettiva: in prima battuta una ricognizione storica, da metà Ottocento ai giorni nostri, relativa ad alcuni casi di populismo - Russia, Stati Uniti, Sud America, Francia, Italia - e, successivamente, una disamina teorico-concettuale, con particolare riferimento ai populismi di ultima generazione. Infine una ricognizione sulle «ragioni» del populismo nell’odierno mondo globalizzato. Il nostro intento non è di proporre una nuova, ennesima interpretazione, piuttosto di fare il punto circa gli approdi più rilevanti della ricerca sulla «questione populista».

 

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