Cultura

Pirotecnica dimostrazione d’eclettismo

AA

Una lucida follia raccontata attraverso dieci canzoni-non canzoni. Schegge di suono, ugola spinta ai limiti dell’umano, tirate orchestrali e momenti di (quasi) melodia. Un condensato di quanto possa partorire l’encefalogramma pazzo di John De Leo, ex vocalist dei Quintorigo, che torna a far sentire la sua voce (o, per meglio dire, le sue mille voci) con «Il grande Abarasse», vulcanico sfoggio di talento e schizofrenia sotto il sole delle contaminazioni. Gli archi e le chitarre pesanti lambiscono mari di mazurche, jazz e valzerini, mentre De Leo estende le corde vocali dalle tenebre di un tono al limite del roco a vette da simil-soprano. No, un altro cantante così non c’è. Prendere (e ascoltare...) o lasciare. Ma non chiedetegli canzonette. Fatevi invece stimolare dalle pazzie assortite di «È già finita/Il cantante muto», dove distorsioni pesantissime sostengono l’impalcatura di un groove ossessivo, mentre i vocalizzi dell’artista ravennate esplodono sullo sfondo.

Con l’aiuto di uno stuolo di musicisti di prim’ordine (compreso il pianista Uri Cane, che rende ancor più brillante «The Other Side of a Shadow»), De Leo appronta un pasto da ultimo giorno sulla terra, regalando anche due perle rare quali «La Mazurka del Misantropo» o l’epica «Io non ha senso», vocalizzando da maestro in «Primo moto ventoso» e suscitando moti irrefrenabili del corpo in «Apocalissi Mantra Blues». Nel mezzo, eruzioni vocali, diplofonie snocciolate come caramelle, arrangiamenti a metà tra Fellini e Kurt Weil. Una bravura contagiosa ma difficile da gestire, croce e delizia d’un talento multiforme che confeziona un cd che potrebbe anche sembrare normale. Ma che è troppo intenso per esser definito tale. Da ascoltare con qualche precauzione, ma da ascoltare.

ramp

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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