Cultura

Paolo Bricco: «Sono nato a Ivrea e ho beneficiato di quel mondo creato da Olivetti»

Sabato 17 settembre alle 20.30 l'incontro con l'autore del saggio in occasione del Cult-Cura Festival in Piazza del Municipio a Preseglie
L’imprenditore Adriano Olivetti davanti allo stabilimento della sua azienda - © www.giornaledibrescia.it
L’imprenditore Adriano Olivetti davanti allo stabilimento della sua azienda - © www.giornaledibrescia.it
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L’architetto tedesco Walter Gropius fondò nel 1919, a Weimar, il Bauhaus: una particolare scuola di design in cui architetti, disegnatori, artisti e artigiani operavano insieme, senza gerarchie, «per dare risposte alle domande della società industriale di massa». Il loro lavoro spaziava dalla pubblicità alla fotografia, dalla pittura al teatro.

Nel 1933, il Bauhaus era diretto da Ludwing Mies van der Rohe, uno dei maggiori esponenti del Modernismo, che insieme ad altri personaggi del calibro di Paul Klee e Vasilij Kandinsky componeva il corpo docenti della scuola, costretta però a chiudere i battenti nel 1933, su pressione dell’allora delegato per la cultura di Adolf Hitler, Alfred Rosenberg. Gli artisti del Bauhaus saranno costretti a lasciare la Germania: molti di loro emigreranno negli Stati Uniti (il Moma di New York ospita la loro prima mostra nel 1938), altri in Palestina. E c’è chi, come Alexander Schawinsky sceglierà l’Italia, nonostante il «buio» dell’epoca fascista, per lavorare alla corte di Adriano Olivetti.

Il libro su Adriano Olivetti

Di sicuro a quel tempo, ma per certi versi lo è ancora, l’omonima azienda di Ivrea era un unicum nello scenario europeo: usando le parole del giornalista del Sole 24 Ore, Paolo Bricco, era «una corte rinascimentale metalmeccanica nel cuore dell’industria fordista», a conferma appunto della capacità dell’imprenditore italiano di attrarre intellettuali e artisti del tempo, ma soprattutto della sua volontà di liberarsi dell’ossessione per il fordismo che, per lo scrittore francese Céline, efficacemente citato dallo stesso Bricco nel libro «Adriano Olivetti, un italiano del Novecento» (Rizzoli), riduce l’uomo in fabbrica a uno «scimpanzé». «Adriano Olivetti era un imprenditore atipico, con un’attitudine sincretista - puntualizza Bricco -: prendeva cose apparentemente diverse e le integrava nella fabbrica, creando un codice strano, molto articolato».

Abbiamo intervistato Paolo Bricco in occasione dell'incontro con lo scrittore e giornalista, che presenterà il suo libro sul palco del Cult-Cura Festival. L'appuntamento è sabato 17 settembre alle 20.30, in Piazza del Municipio, a Preseglie.

In effetti nel libro scrive che esisteva «una membrana» tra la Olivetti di Adriano e il resto del mondo. Una membrana fatta di lavoro e bellezza, di cultura e commercio, di innovazione e comunità e dal delicato rapporto fra l’imprenditore e i suoi dipendenti.

Io sono nato a Ivrea, i miei genitori lavoravano come impiegati alla Olivetti e anch’io ho beneficiato di un mondo speciale che per alcuni anni è resistito alla morte di Adriano Olivetti. Un mondo in cui c’era la democrazia dei bambini: tant’è che solo quando sono andato a studiare a Torino ho capito che esistevano le classi sociali».

Anche per questo motivo ha deciso di dedicare dieci anni della sua vita alla realizzazione di questo volume?

Sulla storia della Olivetti, prima di questo libro, ho scritto e pubblicato una tesi di laurea, due monografie, diversi articoli scientifici, numerosi articoli di giornale. La fonte originaria del mio interesse per questa esperienza storica e per questa forma mentale è Adriano Olivetti. Negli ultimi dieci anni, mi sono misurato con la ricostruzione della sua vita. Ho sentito la necessità di confrontarmi con questa cosa e quindi ho accettato la sfida di scrivere un’opera dedicata a un uomo nella storia.

Un uomo che ha rappresentato anche tante contraddizioni. A partire dal fatto che nonostante avesse ereditato dal padre una visione politica socialista per vent’anni appoggiò il fascismo.

«Camillo Olivetti, il padre di Adriano, era una figura ottocentesca, un ingegnere con il culto delle macchine che porta in fabbrica la sua visione socialista. In fabbrica tutti preferivano Camillo ad Adriano, ma tra i due non esiste un vero e proprio conflitto edipico latente. Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica fascista. È un imprenditore: fa gli interessi della sua azienda. Certo, il pensiero di Adriano Olivetti per molti anni è organico al corporativismo, ma ha una funzione precisa: inserire la fabbrica all’interno della visione fascista dell’industria, che a sua volta assorbe e rimodula le istanza del fordismo e del taylorismo dell’organizzazione scientifica del lavoro e della fabbrica quale perno della modernità. Per Adriano etica e razionalità del profitto erano contestualmente un punto di partenza e non un punto di arrivo come per molti altri imprenditori, anche contemporanei».

Al suo rientro in Olivetti, alla fine della Guerra, comunque, il comportamento di Adriano è da «teatro dell’assurdo»

Adriano Olivetti era pieno di debolezze. Il fatto che nella sua azienda ci sia un elemento «fertilizzante» che la distingue in tutto il panorama internazionale non gli impedirà di creare il seme della sua rovina, anche con errori strategici che segneranno pesantemente il futuro della fabbrica. Come ad esempio la mitizzazione e la conseguente acquisizione senza due diligence dell’americana Underwood, una realtà giunta a un punto di non ritorno da tempo.

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