Omar Pedrini: «Dobbiamo offrire qualcosa che resti»

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco, invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).
Un onore, ma anche un onere. Così Omar Pedrini interpreta l’anno di Bergamo Brescia Capitale. Per tutti lo Zio Rock, ora lo Zio Roccia per i cinque interventi al cuore ai quali si è dovuto sottoporre nell’ultimo biennio (il più recente nelle scorse settimane), tra un ricovero e l’altro ha completato il nuovo album, «Sospeso», in uscita il 16 giugno ed è sempre stato molto attento a quanto accadeva nella «sua» città, nonostante viva a Milano da 23 anni.
Omar: tu, già «testimonial» di Brescia, cos’hai provato nel sapere dell’attribuzione del ruolo di Capitale?
La sorte ha voluto che nel luglio 2020 un passaggio formale alla Camera desse il via libera mentre io e l’amico fraterno Alessio Boni aspettavamo di inaugurare «Lazzaretto On Stage» a Bergamo, con il nostro spettacolo «66/67». La famiglia della mia nonna materna era di Adro, lui è di Sarnico: quella del Sebino è acqua che ci unisce, non che divide. Ci siamo abbracciati. Ho provato orgoglio, ma ero consapevole che quello che ci era stato dato era un «premio» non tanto o non solo per meriti culturali quanto per la forza dimostrata da due città eternamente rivali, ma in realtà gemelle, colpite in maniera speculare da un dramma che ci ha molto avvicinati. Perché è nei drammi che le genti si uniscono.
La cultura come aiuto, volano...
... E stimolo. Il Paese spesso è stato distratto. Vedevano il benessere e non i lati negativi (l’inquinamento, i tumori...). I soldi e non la fatica. A noi il compito di far conoscere le bellezze di Brescia e Bergamo; ma è l’Italia che dovrà essere felice di averle scoperte, come accade tutte le volte che mi sento dire «ma sai, non credevo che...».
E poi c’è il tema della Sanità, al quale sei assai sensibile...
Abbiamo sofferto tanto ed è giusto che ci sia un risarcimento anche in termini di divertimento. L’importante è che non diventi tutto «panem et circenses». Arriveranno altre pandemie e dovremo dimostrare di non aver dimenticato, di avere investito in cultura della salute, compresa quella di prossimità. Lo dobbiamo anche ai santi medici, ai santi infermieri che hanno dato la vita... Invece, mi sembra che si tenda a scordare in fretta.
Il tuo nuovo album è dedicato ai giovani. La cultura resta strumento di possibile ascesa?
Vengo da una famiglia povera. Ma mio padre, con gli studi e tanto lavoro, l’ha presto portata al livello della nuova piccola borghesia bresciana. Credo che nell’Odissea, nell’Iliade, nella Divina Commedia ci sia anche l’uomo di domani... Certo: oggi ogni cosa viene consumata a velocità supersonica. Da un lato avverto troppa fretta, l’idea che il successo debba arrivare subito; non si accetta la gavetta, men che meno la sconfitta. Dall’altro mi rendo conto che di fronte ai cambiamenti climatici, alla precarietà, alla forbice socio-economica i giovani pretendono risposte immediate. Ci sono più urgenze che importanze. Ma la natura, l’umanità hanno i loro tempi.
È la fatica del contadino nel bicchiere di vino, come diceva il tuo maestro Luigi Veronelli...
Un visionario. E un altro elemento che mi unisce a Bergamo, sua città di adozione. Di Brescia diceva che è una delle città più belle. E ci voleva un’anima sensibile come la sua per grattare la scorza, per vedere la bellezza sotto la durezza.
Ma ricordo anche lo chef iseano Vittorio Fusari, che lavorava da Balzer a Bergamo nel momento della prematura scomparsa. Avevamo in programma un’iniziativa su cibo e salute, tema di cui era pioniere.
Cosa auguri alla Capitale?
Con due componenti dei Pinguini Tattici Nucleari avevo elaborato un progetto sulle professioni della musica. Non è stato accolto e non polemizzo. Ma l’idea era offrire qualcosa che resti. La cultura non dev’essere una serie di eventi e passatempi, che pur meritiamo: deve avere una visione, permeare l’anima e il territorio. Torno alla Sanità, ma anche ai lasciti della nostra storia: facciamo sì che ci sia una cultura della resilienza.
Qui il link per leggere l'intervista su L'Eco di Bergamo
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