Cultura

Oltre «Guernica» la voracità della visione

A Palazzo Reale si ripercorre l'opera dell'artista che nel suo continuo rinnovarsi fu modello per la rinascita del dopoguerra.
AA

Parte dal «mito» Picasso, così come arrivò in Italia nella grande mostra a Roma e Milano del 1953, l'esposizione che Palazzo Reale dedica all'artista spagnolo, a cura di Anne Baldessari (coproduzione con Comune di Milano e 24OreCultura). E come accadde negli anni '50, la mostra propone, nella Sala delle Cariatidi dove il dipinto fu esposto all'epoca con grande scalpore, l'immagine di Guernica - anche se solo come videoproiezione - e il «Massacro in Corea» del 1951, opera di forte denuncia antimilitarista. Questa sorta di prologo, prima del rigoroso percorso cronologico affidato a circa 200 selezionatissime opere dal Museo Picasso di Parigi, tra cui alcuni veri capolavori, è funzionale a riannodare i fili della storia, recuperando le origini del «mito» di Picasso, tra arte e vita.

Erano, quelli, gli anni del dibattito sull'arte come strumento ideologico di denuncia sociale e politica, con Guernica fin dagli anni Trenta punto di riferimento in Italia - prima per il movimento di Corrente, e poi del Fronte Nuovo delle Arti - per la ribellione formale contro il classicismo ideologico di Novecento, e per la ricerca nel dopoguerra di un linguaggio che si facesse espressione degli ideali della sinistra comunista. Oltre il dibattito tra realismo di stampo socialista, che vide il proprio campione in Guttuso, e astrazione «concreta» ossia aderente ad un dato di realtà, del Fronte Nuovo e poi del Gruppo degli Otto, il post-cubismo in tutte le sue declinazioni divenne lo stile anche abusato e frainteso con cui l'avanguardia italiana cercava la via per un rinnovamento formale. Di Picasso si fece un mito, nell'assunzione ideologica di Guernica e in una sorta di culto della personalità rafforzato anche da immagini fotografiche firmate da autori come Capa e Doisneau (anch'esse in mostra), vere e proprie icone del vitalismo del «grande vecchio».

Perché Picasso a quell'epoca era già oltre. L'artista che era partito dal profondo sud della Spagna - dove era nato a Malaga nel 1881 - per conquistarsi un posto all'accademia di Madrid ed entrare da protagonista nel modernismo catalano, prima di approdare a Parigi e traghettare il postimpressionismo verso la rivoluzione cubista, il ritorno all'ordine verso il surrealismo, la tragedia della guerra verso una recuperata «joie de vivre», a settant'anni era pronto a reinventarsi una nuova giovinezza sotto il sole del Mediterraneo, inebriato dalla natura e dall'eros, attorniato dalla nuova compagna e dai figli, sempre impegnato nella lotta corpo a corpo con l'arte.
E a distanza di sessant'anni da quella mostra milanese - e dopo quella, sempre a Palazzo reale, del 2001 - è la prospettiva del vitalismo a prevalere su quella dell'impegno, nel segno di un'incessante morte e rinascita artistica, che l'amica e mecenate Gertrude Stein, nella biografia che gli dedicò nel 1938, definiva come «bisogno di vuotarsi, di vuotarsi fino in fondo, di vuotarsi sempre (...) e nel momento che ha finito di vuotarsi ricominciare a vuotarsi, tanto presto è di nuovo pieno».

Pieno di idee, di visioni sempre rinnovate. In un'arte che per lui fu soprattutto visione trasfigurata da un'ansia di possesso della realtà. Nel blu malinconico degli straccioni e saltimbanchi (in mostra l'inquietante «Celestina» dall'occhio cieco), nel rosa terroso e arcaico dei «Due fratelli», dell'«Autoritratto», dei nudi che preludono al manifesto cubista delle «Demoiselles d'Avignon». Il cubismo stesso è rivoluzione della visione amplificata nella quarta dimensione del tempo e del movimento: il pittore inglese David Hockney, protagonista di una mostra-confronto nel '99, parla di «quadri intimi» in cui la visione muta «più ci si avvicina alla realtà», fissando sulla tela la «visione per sequenze» che altro non è che il meccanismo stesso del vedere. Visione rapace come mezzo per impossessarsi della realtà attraverso l'arte, in una voracità che contraddistinse Picasso anche nella vita privata, e che pervade pure i ritratti apparentemente più classici come gli straordinari «Pablo in arlecchino» e «Olga in poltrona».

Con il Surrealismo l'artista dichiara di mirare «alla somiglianza più profonda, più reale del reale, che raggiunga il surreale». Ancora una volta l'arte affronta l'inganno della visione, per spingersi oltre, fino al mondo del mito e del sogno. Lo spagnolo Picasso recupera la radice della corrida, lotta ancestrale tra l'uomo e la bestia, la ragione e l'istinto, non per dividere bene e male ma per trovare la sintesi di due elementi inscindibili. La battaglia contro l'animale è un rito di scontro e riconoscimento, come nella vita accade tra uomo e donna (i nudi e le coppie surrealiste), nell'atelier tra il pittore e la sua modella (tema che torna ossessivo lungo tutta la sua carriera) sulla tela tra il soggetto e il suo doppio (nei ritratti, tra cui quello di Dora Maar, e negli autoritratti).
Picasso pittore doma la realtà come il toreador l'animale, smonta la visione e la moltiplica nei piani di colore, crea mondi di fantasia assemblando assi di legno e latta («I bagnanti»), esorcizza la guerra nell'urlo della «Supplice», dichiara la propria vitalità nel «Bacio» tra il vecchio barbuto e la fanciulla. L'ultimo dipinto, il «Giovane pittore», è un graffito infantile, ritorno all'innocenza. Estremo, tenero autoritratto.
Giovanna Capretti

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato