Cultura

«Nelle vene dei romani scorreva sangue misto prima dell'impero»

Il libro Gianluca De Sanctis «retrodata» la presenza del mito di Enea nel Lazio arcaico
In copertina l’immagine scelta per rappresentare «Roma prima di Roma», il saggio edito da Salerno
In copertina l’immagine scelta per rappresentare «Roma prima di Roma», il saggio edito da Salerno
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Ben prima che Roma divenisse un impero multietnico, nelle vene dei suoi abitanti scorreva un «sangue misto», frutto di migrazioni e rimescolamenti continui, ripetutisi costantemente. E se l’Antica Roma poté durare quasi mille anni, ciò fu dovuto al fatto che quello romano non fu grande perché popolo di conquistatori, ma, soprattutto, perché popolo di agricoltori; perché al conquistatore-devastatore si sostituì il conquistatore-costruttore o coltivatore; perché all’invasione delle terre e alla sottomissione dei popoli subentrò la colonizzazione e l’associazione dei vinti alla fortuna dei vincitori, alla dominazione la «societas».

Come questo processo si evolse sin dai primordi, creando le premesse di quella che sarebbe diventata «la Città eterna», lo si può leggere nel saggio di Gianluca De Sanctis «Roma prima di Roma. Miti e fondazione della Città eterna» (Salerno editrice, 234 pagine, 20 euro). Scopo del libro, spiega l’autore, «non è verificare l’attendibilità del mito, quanto spiegarne, se possibile, la filogenesi ed esplorarne la significatività».

Professore: risalgono al IV secolo le prime testimonianze su Enea, il capostipite dei Latini, e provengono da Lavinio. Cosa le fa pensare che il mito sia sorto molti secoli prima?
Una serie di presenze, iconografiche e letterarie, documentano la presenza del mito di Enea nel Lazio arcaico già a partire dal VI secolo a.C. Forse il viaggio di Enea in Occidente era già narrato nell’Ilioupersis di Stesicoro o in qualche altro poema del ciclo troiano andato perduto. Del resto, sappiamo che la diffusione dell’epos omerico procedeva di pari passo con la colonizzazione del Mediterraneo da parte del mondo greco. Solo agli inizi III secolo sembra emergere un’«autocoscienza etnica» romana... Relativamente a quello che possiamo dire sulla base delle fonti a nostra disposizione, fino al terzo secolo l’identità romana ci appare eterodiretta. Prima di allora sono gli altri, cioè sostanzialmente i Greci, che ci dicono chi erano i Romani. Una delle prime tracce di un’autocoscienza etnica affiora in occasione della guerra contro Pirro. Se il re dell’Epiro poteva presentarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come un discendente di Achille che va a combattere contro i discendenti dei Troiani, ciò significa che gli stessi Romani avevano ormai sposato questa opzione e ne facevano ampio uso nei loro rapporti con il mondo greco.

Cosa prova che l’ellenizzazione di Roma inizi con la storia della città?
Roma non era certo una città greca (nel senso di fondata da Greci), ma questo non significa che non fosse sin dalle sue origini attraversata da presenze greche (uomini, manufatti, idee, racconti); né avrebbe potuto essere altrimenti. I Greci avevano esportato il loro modello di civiltà, il loro sapere, la loro cultura in ogni angolo del Mediterraneo, attraverso una capillare opera di colonizzazione. Le città latine erano tutt’altro che oasi inaccessibili e impermeabili all’ellenizzazione. I Romani, come i loro vicini, si appropriarono di molti elementi caratteristici della cultura greca, interiorizzandoli al punto da dimenticarne l’origine allogena: si pensi all’alfabeto, tratto dalla vicina Cuma, ad alcuni culti e istituzioni, e soprattutto ai miti (Ercole, Saturno, Evandro, Enea).

Perché le nuove scoperte della paleoantropologia e della genetica avvalorano il discorso di Seneca che migrare è un istinto naturale del genere umano?
La paleoantropologia - che oggi può avvalersi di nuove tecniche e metodologie di indagine, prima fra tutte l’analisi genetica - ha dimostrato che specie umane e migrazioni sono un binomio inscindibile. Quella umana è, per sua natura, una specie «migrante». Gli uomini, non solo i Sapiens, ma anche i loro antenati, sono riusciti a sopravvivere perché hanno imparato a viaggiare, per sfuggire all’instabilità ecologica dell’ambiente originario. La capacità di spostarsi e di adattarsi a nuovi habitat ha fatto la differenza. Seneca, quasi duemila anni fa, era arrivato alle medesime conclusioni. Dal suo esilio in Corsica spiegava alla madre Elvia che l’ibridazione, il meticciamento sono, per l’appunto, un dato «naturale» e imprescindibile nella storia dell’umanità. In un universo in cui è tutte le cose sono soggette al mutamento, gli uomini non fanno eccezione. La stessa civiltà romana è stata fondata da un esule, da un profugo, scampato alla più grande catastrofe che si ricordi (la guerra di Troia). Dunque, concludeva Seneca, sarebbe vano cercare ancora sulla terra «popolazioni indigene», che siano rimaste pure e incontaminate, come pretendevano di essere gli Ateniesi o gli Albani. La storia ha mescolato i popoli, facendone un coacervo, un intrico che dovrebbe sconsigliare l’uso di categorie come «integrità» e «purezza».

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