Cultura

«Nel nome di Wondy si insegna la resilienza ai bambini»

Parla Alessandro Milan, ospite domani nella sala Libretti del GdB: «Quello dedicato a Francesca è un libro che parla di vita»
Entrambi giornalisti e scrittori. Alessandro Milan e Francesca «Wondy» Del Rosso (dal sito wondysonoio.org)
Entrambi giornalisti e scrittori. Alessandro Milan e Francesca «Wondy» Del Rosso (dal sito wondysonoio.org)
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È un manuale di resilienza il libro, pubblicato all’inizio di quest’anno, che Alessandro Milan ha dedicato alla moglie, la giornalista e scrittrice Francesca Del Rosso, morta nel dicembre 2016 dopo una battaglia di sei anni contro il tumore. Milan, voce di Radio24 molto amata dagli ascoltatori, ripercorre in «Mi vivi dentro» (DeA Planeta, 272 pagine, 17 euro) la storia del loro amore fino agli ultimi giorni: trovando parole misurate e commoventi, che non nascondono i dettagli crudeli della malattia ma restituiscono anche la «forza incrollabile» di una donna sempre pronta a gettarsi nel mondo con entusiasmo.

«Sfido chiunque ti abbia conosciuta a raccontarmi una volta in cui ti ha vista o sentita piegata dalla vita». L’avevano soprannominata Wondy, da Wonder Woman. Questo martedì, alle 18.30, Milan sarà nella Sala Libretti del Giornale di Brescia (e in streaming sul nostro sito, i posti in sala sono esauriti) per parlare di Francesca, del libro, della mostra «In viaggio con Wondy» - esposta l’anno scorso a Librixia - e dell’associazione «Wondy sono io» (wondysonoio.org), nata «per insegnare e diffondere la cultura della resilienza». Milan, in questi mesi ha toccato con mano le reazioni dei lettori.

Cosa l’ha più colpita? Ho scritto questo libro a fatica, perché inizialmente non volevo ritornare su una vicenda così tragica. Ma ora, incredibilmente, pur trattandosi di una storia molto personale, accade che quasi tutte le persone che incontro mi ringraziano. Tutti affrontiamo nella vita difficoltà più o meno grandi. Così, tutti mi raccontano che hanno sentito la mia storia come parte della loro vita. Questo mi emoziona perché mostra che veramente, quando scrivi un libro, diventa non più tuo ma dei lettori. Forse questo accade perché lei ha trovato il tono giusto... Può darsi che sia così. La prima cosa che dico presentandolo, in genere, è che questo libro parla di vita. Ho voluto raccontare la nostra storia d’amore, durata 16 anni, non soltanto la storia della malattia di Francesca: sarebbe stato ingiusto e ingeneroso. Racconto anche le tante cose meravigliose che abbiamo fatto.

Cosa sta facendo l’associazione «Wondy sono io»? Il nostro evento più importante è il Premio Wondy per la letteratura resiliente. La prima finale si è svolta nel marzo scorso, con una giuria presieduta da Roberto Saviano; presidente nel 2019 sarà Mario Calabresi. Pochi giorni fa, con la Wondy Night condotta da Leonardo Manera, abbiamo portato 800 persone al Teatro Manzoni di Milano. Ma il grande progetto riguarda le scuole, e spero che possa partire nel prossimo anno scolastico: vogliamo insegnare, attraverso laboratori teatrali, la resilienza ai bambini delle scuole elementari e medie. Lei afferma che i bambini hanno una grande capacità di resilienza... Dovremmo impararla da loro. Sono puri, si accontentano di poche cose, superando le difficoltà molto più in fretta degli adulti. Quando ho detto ai miei figli che la mamma era morta, verso mezzanotte, dopo aver pianto per un quarto d’ora sono venuti in sala, dove c’erano gli amici, e hanno detto: adesso facciamo un pigiama party. Può sembrare assurdo, ma agli occhi di un bambino è la cosa più naturale del mondo. Anche se affrontano un percorso di dolore, restano comunque legati al bello della vita.

Quanto è importante la condivisione del dolore? Il dolore c’è, non lo si può togliere. Ma si può affrontarlo meglio, e condividere è una delle chiavi fondamentali. Francesca l’ha fatto con il blog di Vanity Fair «Le chemio avventure di Wondy». Io in qualche modo l’ho fatto scrivendo il libro. Creare una rete non elimina la malattia, ma aiuta a superare gli ostacoli in modo più semplice.

Nel libro c’è anche il sentimento di ingiustizia per la precarietà della vita. È possibile, a un certo punto, una pacificazione? Qualsiasi persona con una malattia grave si chiede, prima o poi: perché è successo a me? Anche Francesca si è lasciata andare alla disperazione, al pianto. La sua immagine pubblica era molto forte, ma ha avuto anche le sue debolezze, e non poteva che essere così. A un certo punto, però, ha detto: in fondo ho fatto tutto quello che volevo fare nella vita, la scrittrice, la giornalista, la mamma, la moglie, i viaggi... Questa è forse una consolazione, anche se lei avrebbe voluto fare molto di più, perché era una persona vitale. Certo, l’ingiustizia che un genitore non può accettare è il fatto di non veder crescere i propri figli: è la cosa che le è pesata di più.

Pensa di continuare a scrivere libri? Non so se scriverò ancora, né di cosa. Su questa storia ho detto tutto. Ma ho capito che scrivere è anche bello. Quindi mi sto interrogando.

 

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