Willie Peyote: «Non rinuncio all’ironia anche sui temi più difficili»

Arriva nel Bresciano a luglio e ci ritorna ad agosto, con il tour «Grazie ma no grazie», che prende il titolo dalla canzone con la quale ha gareggiato a Sanremo 2025. Willie Peyote (al secolo Guglielmo Bruno), rapper piemontese alla soglia dei quarant’anni e dallo stile elegantemente autorale, si esibirà l’11 luglio all’Arena Campo Marte (alle 21.30), mentre sabato 9 agosto (alle 21) sarà di scena a Edolo: i biglietti hanno lo stesso costo, 40 euro per il posto unico in piedi (info su www.cipiesse-bs.it).
Il pezzo sanremese è andato ad arricchire (con altre tre tracce) l’edizione aggiornata di «Sulla riva del fiume», disco editato in una prima versione ad aprile 2024, con ottimi riscontri di critica e pubblico. Ma i live sono costruiti per rendere giustizia all’intera traiettoria discografica di Peyote, sebbene l’attenzione sia concentrata in particolare sulla cosiddetta «Trilogia Sabauda», in cui l’album più recente è in compagnia di «Educazione sabauda» (2015) e «Sindrome di Tôret» (2017). Abbiamo intervistato l’artista torinese.
Willie, si dice che nel tour in corso (come già nell’ultimo album) ha messo in campo più jazz e meno hip hop. È così?
Essendo l’hip hop figlio del jazz è difficile scinderli. C’è meno rap, quello sì, ma di sicuro c’è dentro tutto quello che piace a me, ovvero tanta musica suonata dagli ottimi musicisti che sono con me sul palco (cinque, ndr).
A Sanremo ha portato un brano ironico e irriverente, più immediato di altri. Un modo per allargare il pubblico restando fedele a se stesso?
Anche in questo caso non ho derogato dal fare ciò che mi piace. Ho cercato di rendere più facile all’ascolto il pezzo, ma restando coerente con il mio stile, senza pormi più di tanto il problema di arrivare per forza a tutti, non rinunciando a fare ironia anche su temi non esattamente semplicissimi. Perché essere fedeli a se stessi è la cosa che ci può riuscire meglio nella vita.
Sempre all’Ariston, nella serata delle cover, ha interpretato «Un tempo piccolo» di Franco Califano, che ha poi inciso. Un omaggio estemporaneo o c’è di più?
Apprezzo profondamente Califano ed invidio a lui – come ad altri grandi autori – la capacità di essere poetico anche raccontando il brutto della vita, mischiando alto e basso senza nascondersi dietro un dito, raccontandosi fino in fondo anche nel peggio. In questo, il Califfo è stato uno dei più grandi.
Di Califano si rimarcava il disincanto, qualificandolo come nichilista, categoria talvolta scomodata per Willie Peyote. Ci si riconosce?
Se finisco in una categoria con il Califfo ne posso essere solo orgoglioso. Ma lui, pure nelle canzoni che ha scritto per altri, ha avuto picchi che io non ho ancora raggiunto. Lo prendo come un obiettivo, un orizzonte a cui tendere.
Due date bresciane nel giro di un mese. C’è un legame col nostro territorio?
Nessuno in particolare. Ma quando ho cominciato a farmi conoscere fuori da Torino, Brescia e Bologna sono state le città che mi hanno accolto per prime e meglio. Per cui, quando mi propongono di suonare a Brescia, accetto con entusiasmo.
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