Simone Fenotti: «In Arabia per trasmettere l’idea dell’Italia nel mondo»

«Niente è più efficace del canto lirico per trasmettere l’idea di Italia nel mondo. Al termine di un mio concerto, un ragazzo che non aveva mai visitato il nostro Paese mi ha confidato di averne intuito la bellezza proprio attraverso le arie d’opera».
Il giovane tenore bresciano Simone Fenotti, classe 2000, è reduce da una tournée in Arabia Saudita (Jeddah, Ryad) organizzata dal Cidim (Comitato Nazionale Italiano Musica) e dall’Associazione Leone Magiera; in settembre si è aggiudicato il premio «Lorenzo Saccomani – Casa Verdi» a Milano, in ottobre ha vinto il premio miglior tenore al concorso «Tito Schipa» a Lecce, in novembre ha vinto il premio speciale del più giovane concorrente del Concorso «F. P. Tosti» di Ortona (conquistato nelle edizioni passate da importanti cantanti come Giuseppe Filianoti, Francesco Meli, Marcello Giordani).
Quanto al futuro, in aprile tornerà al Teatro Massimo di Palermo nel Don Chisciotte di Giovanni Battista Martini, in maggio sarà al Teatro Verdi di Pordenone (madrina della serata, Daniela Barcellona), insieme al mezzosoprano Giulia Alletto.
Quanto è amata l’opera italiana in Arabia Saudita?
Ci si muove in un territorio vergine. Non esistono teatri, gli spettacoli di classica sono rari, ancor più quelli operistici; però l’interesse è altissimo e anche a scuola stanno promuovendone lo studio. Proprio quest’anno ha debuttato la prima opera lirica araba, Zarqa Al Yamama, musica di Lee Bradshaw su libretto di Saleh Zamanan.
Come ha conosciuto il maestro Leone Magiera, per lunghi anni pianista e direttore di Pavarotti e Mirella Freni?
L’ho incontrato per la prima volta a 18 anni, al concorso Ettore Campogalliani di Mantova, dove lui era in commissione. Si complimentò e mi rincuorò perché non ero approdato alla finale. «Il talento lo si vede prima dei 20 anni, pensate a Leopardi», spiegò al resto della giuria. Quest’anno, per il suo 90esimo compleanno, ho cantato alla festa in suo onore. Da allora lo frequento regolarmente. Quando salgo le scale della sua abitazione bolognese sento l’emozione invadermi. «Questa l’ho diretta con Alfredo Kraus e Montserrat Caballé», mi dice sfogliando gli spartiti. L’ultima volta che ho cantato «Il lamento di Federico» dall’Arlesiana di Cilea, Magiera mi accompagnava a memoria e al termine dell’aria l’ho visto immobile, silenzioso, con la testa chinata: «Fenotti, non le nego che sono un po’ commosso...», mi ha sussurrato. Compito degli artisti è produrre emozioni che agli ascoltatori ricordino frammenti di vita. Amplificare e ricordare è uno degli scopi del canto. È una questione di anima: la stessa nota fatta in differenti condizioni psicologiche cambia moltissimo. I grandi come Magiera sono capaci di aprirti mondi a cui non avevi mai pensato, anche con un solo suono».
Cosa ama in particolare del mondo teatrale?
A teatro si condividono pensieri, visioni, idee, percorsi. Si prova, ci si confronta, si rispettano i ruoli, per arrivare alla comune riuscita complessiva. È una suprema forma di democrazia.
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