Mauro Pagani su «Crêuza de Mä»: «Fu il romanzo d’avventura di due Salgari»

Enrico Danesi
Per i 40 anni dell’album scritto insieme a Fabrizio De André, il musicista e compositore di Chiari sarà ospite del Premio Staino venerdì 27 settembre a Darfo Boario: ingresso gratuito
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Creuza de ma: quarant'anni dopo
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«Crêuza de Mä», pietra miliare della musica italiana, compie 40 anni. Ricorda Mauro Pagani da Chiari, che scrisse quel disco a quattro mani con Fabrizio De André: «È un album incollocabile nello spazio tempo, sospeso, scevro da tendenze, arcaico, ma sempre attuale. Il mio bisogno, di uomo e di artista, di issare le vele, in questi strani giorni, è incontenibile. Le rotte che, scrivendo l’album, immaginavamo solcate da bastimenti carichi di spezie, oggi sono, nella realtà, una via di fuga, e per molti, troppi, dall’ingiustizia. Il viaggio da capo, dunque; e, se possibile, a un volume ancora più alto, perché tutti ci sentano bene».

Ecco allora che Pagani quel disco lo sta suonando di nuovo, in giro per l’Italia, accompagnato da una band con due voci di supporto, Elena Nulchis e il senegalese Badara Seck, quindi Walter Porro (tastiere, synth, fisarmonica), Claudio Dadone (chitarre, bouzouki), Max Gelsi (basso), il bresciano Joe Damiani (batteria, percussioni), Eros Cristiani (pianoforte) e Mario Arcari ai fiati.

Venerdì 27 settembre approda al Garden di Darfo Boario Terme, in occasione del primo premio dedicato al vignettista e giornalista Sergio Staino (che di Pagani è stato amico): appuntamento alle 21, con ingresso da acquistare (costo 27 euro).

Mauro: «Crêuza de Mä» è un capolavoro riconosciuto, per qualcuno «probabilmente la massima opera realizzata in Italia nel campo della Canzone» (Enzo Gentile e Alberto Tonti nel Dizionario del Pop Rock). Il co-autore che ne dice?

Ne sono lusingato, anche se quando l’abbiamo concepito non pensavamo certo di fare un capolavoro. Ma, da subito, abbiamo avuto la sensazione che fosse un disco importante. Lo pensava anche Fabrizio, per cui è stata un’avventura particolarmente difficile, perché lui era il cantautore italiano, fautore di una lingua accurata e con tanti esempi francesi nella testa... Si confrontava con un idioma famigliare come il genovese, ma non viveva a Genova da anni; per cui telefonava agli amici per esser sicuro di usare correttamente certe parole e, da esegeta qual era, aveva comperato tutti i vocabolari di genovese presenti sul mercato, che controllava costantemente.

Come fu la lavorazione del disco?

A scriverlo ci abbiamo messo pochissimo. Erano i tempi giusti: per Fabrizio, che aveva voglia di cambiare; e per me, che avevo lavorato anni sul materiale mediterraneo, e quindi ero pronto a scrivere musica con il passo leggero di chi si sente a casa. A realizzarlo ci abbiamo messo invece parecchio: cominciammo ad agosto, nello studio ricavato nel seminterrato di casa mia, con un fonico davvero bravo come Allan Goldberg, e consegnammo a Natale. D’altronde, Fabrizio era l’uomo dei dubbi...

Prime reazioni in Ricordi?

Fabrizio aveva tenuto nascosto il progetto, solo il direttore artistico Diego Andò ne era a conoscenza. Quando l’amministratore Guido Rignano venne in studio, il penultimo giorno di lavorazione, ascoltò e disse a De André: «Che cosa geniale, Fabrizio... vi siete superati!». Ma poi, andando a pranzo, con Fabrizio e Andò fuori portata di voce, mi guardò sconsolato e sussurrò: «Speriamo di riuscire a venderne qualche copia almeno a Genova!».

Già nel 1978 aveva pubblicato il notevole ellepì eponimo in cui mescolava avanguardia e sonorità mediterranee, andando oltre il folk rock, che - come ricorda nella sua autobiografia «Nove vite e dieci blues» - le «era venuto un po’ a noia». Non ebbe il successo che meritava: troppo in anticipo sui tempi?

Eppure, in Giappone fu votato come miglior disco europeo dell’anno! Solo in Italia non eravamo pronti o, forse, da me tutti si aspettavano un disco in stile Pfm. Ma io, già da due, tre anni comperavo ogni disco di musica turca, greca, spagnola e nordafricana che trovavo: in quell’album ci sono le radici di ciò che sarebbe venuto dopo.

Nel 2004 ha ripreso in mano «Crêuza de Mä», reincidendolo sotto l’egida della sua etichetta, Officine Meccaniche. Gli arrangiamenti di oggi sono quelli originali o quelli del 2004?

Sono quelli del 1984. Nel 2004 feci un esperimento, partendo dall’idea che «Crêuza de Mä» più che un disco di world music è un romanzo d’avventura realizzato da due Salgari che viaggiavano poco e sognavano tanto. Volevo provare a registrare quel materiale con musicisti nati con quelle sonorità, dunque nordafricani, turchi, spagnoli... Mi sono tolto una soddisfazione, e credo che il disco abbia un taglio interessante.

Violinista, polistrumentista e rocker con la Pfm, la carriera da solista, le collaborazioni con Demetrio Stratos e Faber, le colonne sonore, la produzione discografica. Si tiene tutto stretto con eguale trasporto o c’è un periodo prediletto?

C’è, ed è quello in cui, per la prima volta, sono riuscito a dare molto di me stesso in un genere che amavo fino in fondo. Lasciai la Pfm perché ero stufo del progressive e di scelte estetiche ipercesellate, perché avevo voglia di un altro mondo... L’ho trovato, e quello in cui ho scritto «Crêuza de Mä» è stato il periodo più felice della mia vita». 

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