I Luf festeggiano 25 anni di musica: «Il dialetto è rock and roll»

Enrico Raggi
Lo faranno con il loro nuovo disco, «Jüsto 25»: un inno «alle donne, alla loro pazienza, intelligenza, umiltà e forza»
La band musicale dei Luf - © www.giornaledibrescia.it
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Non perdono il vizio e nemmeno il pelo. I lupi azzannano ancora: le gambe, la mente, il cuore. Compiono 25 anni di festa collettiva, impegno civile, musica e poesia, belle speranze, idiozie (e amicizie e visioni) conquistate a fatica. Non lasciatevi ingannare dai titoli amabili («Vivi la vita ballando», «Salta la corda», «Signora dai lunghi pensieri»): «I Luf» sono sempre matti, selvatici, affamati. Di suoni e di emozioni. Un branco di amici usciti dai boschi della Val Camonica, che ululano canzoni d’amore e protesta. Ballate folk e ritmi rock (e giornate a trovare una rima). Preghiere, scioglilingua, abracadabra. Tradizioni popolari e cantautorato. «Dodici cd, quattro libri, 1.500 concerti, a breve tournée a Lorraine (Francia), Svizzera, Sud Italia», riassume Dario Canossi, voce e autore di tutti i brani.

In quale genere vi rispecchiate?

«Hanno cercato di incasellarci, ma non ci sono riusciti, come già con i nostri antenati camuni. Siamo stati i primi a incidere: non dischi, sulle pietre. Il nostro pubblico va dai 7 ai 70 anni, alla Nomadi. Le figlie portano i padri, poi i padri trascinano i nipoti, in una giostra di generazioni. Sound ballabile e raggiante, cura del testo, melodie belle e ancestrali, arrangiamenti efficaci: ce n’è per tutti. Ho amici che mi odiano perché in macchina i loro bimbi vogliono ascoltare solo «I Luf». «Adesso cambiamo musica!», implorano i genitori. Siamo cresciuti a pane, De Andrè e Guccini; ma anche Clash, Led Zeppelin, Csn&Y, Modena City Ramblers, Pogues».

Sabato 21 esce il vostro nuovo cd, «Jüsto 25». Chi è la «Donna-Vita-Libertà» del brano «Sotto la neve il fuoco»?

«È un grazie, un grido, una preghiera, alle donne che ho incrociato e a cui ho voluto bene. Un inno alla pazienza, intelligenza, umiltà e forza femminili».

Che origine ha il nome «Lupi»?

«All’epoca ci chiamavamo «Charlie Hill & the Camun sound». Tardi anni Ottanta, stiamo tornando dalla Svizzera e ci fermiamo a bere in una birreria. Viene lì un tipo a tampinarci, un fricchettone sui 50 anni, capelli lunghi, barbaccia, chili e metri di collane, anelli, braccialetti. Ci mettiamo a chiacchierare. Gli regalo due nostri dischi. Tempo dopo mi chiama e mi fa: “Sono Enzo Bellini, detto il lupo”. “Siamo noi!”, ho pensato. È stato lui a disegnarci il logo. Lui, il lupo, il logo, il titolo della prima canzone, il nome del disco e della band. Tutto in un solo morso».

Perché usate (volentieri) il dialetto?

«Il dialetto è rock and roll. Canta e suona di suo. Funziona più dell’italiano, con accenti, tronche, monosillabi perfetti. “Hic hac de hoc ech, echach on hol hota il hul de hetember”: “Cinque sacchi di ciocchi secchi, essiccati sul solaio al sole di settembre” non è la stessa cosa! Nell’ultimo disco c’è pure un pezzo in gaì, il gergo dei pastori delle Alpi bresciane–bergamasche: musicalità mostruosa. Pino Daniele e Davide Van De Sfroos devono il loro successo anche al dialetto. È la lingua del popolo, dell’incontro, della terra, dell’anima. Come canto in una vecchia canzone: “Non crescerai se non avrai radici, non si cammina bene senza amici”».

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