Musica

Cat Power: «Da donna, interpreto Bob Dylan con amore e rispetto»

Il 5 luglio la singer americana sarà in concerto al Vittoriale per il Festival Tener-a-mente col repertorio del cantautore
La cantante statunitense Cat Power - © www.giornaledibrescia.it
La cantante statunitense Cat Power - © www.giornaledibrescia.it
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C’è una foto di Cat Power scattata da Richard Avedon nel 2003. Indossa una maglia strappata di Bob Dylan, tiene una sigaretta tra le mani e sta ascoltando il fotografo che le dice «mi ricordi tanto Janis Joplin». Tutti dettagli che si sommano e che tornano in cerchio, e su cui anche lei torna mentre chiacchieriamo, sviscerando i suoi ricordi senza filtro.

La foto scattata a Cat Power da Richard Avedon nel 2003 - Avedon Foundation Instagram © www.giornaledibrescia.it
La foto scattata a Cat Power da Richard Avedon nel 2003 - Avedon Foundation Instagram © www.giornaledibrescia.it

Prima di Florence and the Machine, prima di Lana Del Rey, prima di Carmen Consoli. Prima di tutte c’è Cat Power. I confronti sono sgradevoli, ma per comprenderla può essere utile accostarla alle altre cantautrici del nostro tempo, quelle che uniscono folk, indie, alternative rock ed elettronica e che riescono anche a lasciare un’impronta fashion (lei anche sulle passerelle: erano sue le colonne sonore delle sfilate di Karl Lagerfeld).

Quest’estate Chan Marshall (questo il vero nome della cantautrice classe 1972) arriverà a Gardone Riviera: venerdì 5 luglio il Festival Tener-a-mente al Vittoriale sarà teatro di «Cat Power sings Dylan», performance live che è già stata registrata in un omonimo album e che è per certi versi già mitica (ci sono ancora alcuni biglietti in gradinata non numerata a 43 euro più prevendita, disponibili su www.anfiteatrodelvittoriale.it). Cat Power si è esibita alla Royal Albert Hall di Londra scegliendo di interpretare uno degli album più iconici della storia, «Live 1966: The Royal Albert Hall Concert». Fu quello in cui Bob Dylan, dopo una prima metà acustica, passò al rock elettrico suscitando le critiche di chi lo voleva puramente folk. Anche Cat Power ha registrato la stessa scaletta, diventata album e ora tour live. In questo momento è però impegnata in un’altra tournée: quella con i Modest Mouse, piccola parentesi prima di tornare a dedicarsi a Dylan portandolo in Europa. «Sto stiracchiando le ali», sorride, rispondendoci dalla riva di un lago americano sul quale zompetta una rana «che tanto mi ricorda Bob».

Cat, ha scelto un bootleg piuttosto controverso, oltre che mitico. Quando ha deciso di cantarlo era più spaventata o più eccitata?

«Funny: parlare con una giornalista donna dà un diverso senso a questa domanda. Posso risponderti con sincerità perché sono cose che solo io e te capiamo. Quando gli uomini mi hanno fatto questa domanda ho dato una risposta, ma dammi un attimo: voglio pensarci meglio. Tutti si aspettano che io abbia paura. Quando ho annunciato che avrei cantato Bob Dylan, i critici erano scioccati, sorpresi. Una donna che si permette di toccare Dylan! Mi fa ridere la quantità di uomini che hanno espresso stupore. Noi donne abbiamo a che fare con questa roba tutti i giorni. Io amo, amo Bob Dylan. Amo ogni sua canzone. Ma quando me lo chiedevano, per bilanciare, dovevo dire “no, non ho paura”. Ma a te lo dico: certo che ho paura. Anche perché mi approccio al suo lavoro con rispetto, come ogni volta che lavoro. E lavoro sodo, come ogni maschio. In questo senso non ho tempo di essere spaventata. Non lo sono le madri single. Non lo sono tutte le donne. Non possiamo avere paura».

In passato ha definito Dylan «God Dylan», quindi immagino già la risposta: pensa che sia lui l’espressione più pura della musica americana?

«La voce della musica secondo me è Billie Holiday. Il suo spirito trascende tutto. È in un’altra dimensione. Ha un dolore infantile che porta con sé e che esprime con la voce, anche da adulta. Bob Dylan è invece una voce gender-fluid, un architetto dello storytelling della musica. Ha fatto la storia della narrazione. Quindi sì: è il più grande songwriter nella storia d’America. God Dylan è una battuta che feci anni fa, ma è ovvio che l’umanità intera lo sente visceralmente. Perché dice la verità. Parla per tutti, per coloro che hanno bisogno d’aiuto. Crede nello spirito umano: ecco perché è quello che è per milioni di esseri umani».

Se dovesse ascoltare una canzone di Bob Dylan per tutta la vita, quale sarebbe?

«Difficilissimo! “Shelter from the storm”? Ma è dark, a volte. Amo “To Ramona”: mi fa sentire protetta come donna. Ma per sempre? Forse “Tamburine Man” in slow motion».

Lei è conosciuta per le sue cover incredibili: sa renderle realmente sue. Come si fa?

«Si fa per necessità. Le sento dentro immediatamente. L’arte è anche impazienza: la musica è l’unica vera droga per me. Quando devo creare, devo creare subito, in quel momento. L’improvvisazione irrazionale - che è metà gioia, metà elettricità, più un pizzico di incognita - è ciò che mi fa cantare le cover. Come quando vedi un grande dipinto, una poesia stupenda… Succede e basta. Arrivo al burrone e salto senza pensarci, e solo a quel punto apro le ali».

C’è chi la accosta anche a Janis Joplin: avete la stessa intensità, la stessa forza emotiva. Ha già prestato la voce per leggere alcune lettere nel biopic a lei dedicato, ma canterà mai la sua discografia?

«Probabilmente lo farò. All’inizio della mia carriera anche Richard Avedon me lo disse, mentre mi fotografava in un ospedale di New York: “You remind me so much of Janis”. Detto questo: wow. Grazie del confronto. Per me è una gemma, una stella luminosa. Una canzone già la cantai: “A woman left lonely”. È nel mio cuore. Janis rappresenta molta della forza che le donne non hanno mai avuto il permesso di mostrare. Lei il permesso se l’è preso. Immagina la vergogna, in quel periodo, di fare il rock and roll senza essere ladylike, femminile. È la vera prima vera donna del rock. Invidio la sua gentilezza e la sua libertà di spirito. Era così forte vocalmente perché irradiava gioia e amore incondizionato. Era ipnotica e contagiosa. Ecco perché diventò così popolare in così poco tempo. Quando Avedon mi disse che gliela ricordavo, pensai ai punti di contatto. In effetti siamo entrambe del Sud. Soprattutto, siamo donne sole nella musica. Agli inizi, dopo i concerti ero sempre l’unica ragazza nel bar. Immagino anche lei. Mi hanno sempre recriminato tante cose, cose che agli uomini non sono mai state rinfacciate. È stato difficile essere me in quegli anni. Non mi trattavano da pari. Nemmeno lei. Ma lei disse ciò che pensava. Io riesco a farlo solo ora, da grande. La sento come una sorella. Ha compiuto passi per tutte noi che ci identifichiamo come donne e che amiamo gli uomini».

Cambiando argomento: lei ha lavorato anche nell’industria fashion, aveva un rapporto fortissimo con Karl Lagerfeld ed è stata il volto e la voce di Chanel. C’è un legame tra la sua musica e la moda?

«Quando ero piccola, mia nonna mi crebbe fino ai cinque anni. Cuciva i vestiti, imparai a leggere, a cucinare… Era una donna di campagna che insegnava alla nipote. I miei genitori erano il contrario e mia madre non è stata molto presente. Ecco perché mi ha cresciuto una figura paterna, dai sei o sette anni: era Patrick Kelly. Era un fashion designer del Mississippi, che si trasferì ad Atlanta. Mia madre non c’era e lui si prendeva cura di me. Da lui passavano donne di tutti i tipi. Bellissime donne di colori diversi, con capelli di tutti i tipi. Erano modelle, lui le vestiva. Mi truccavano alla maniera degli anni Settanta, con tanto blush e colori sugli occhi, mentre bevevano birra in bicchieri di plastica. Patrick era al verde ed era dura essere al verde in quegli anni. Stando con lui notavo tutte le diversità rispetto alla mia famiglia white. Mia madre era ossessionata da Ziggy Stardust, per esempio. Nel mondo c’erano tantissimi stili, colori, linguaggi… E così nella musica, nella moda e nell’arte. Quando si trasferì a New York non lo vidi più, ma un giorno passò a prendermi in limousine per andare da McDonald’s. Aveva finalmente sfondato. Lo capii però quando, mentre mi tagliavo i capelli in un hair salon con la foto di Isabella Rossellini come riferimento, lo vidi su Vogue che teneva la mano di Grace Jones. Iniziai a seguirlo da lontano. Da Vogue ho imparato così tanto del mondo… Quando nel 2006 incontrai Karl Lagerfeld per strada, a Manhattan, iniziammo a lavorare insieme. Diventammo amici. In ogni caso, la moda parla. Nella musica, e in ogni arte, l’outfit dell’artista lo descrive. Ed essere stravaganti è normali, perché si è creativi. Gli artisti vivono di arte: fa parte del tessuto della vita. E lì sta la bellezza. Chi si esprime, esprime la bellezza».

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