Al Morato il concerto tributo a Lucio Battisti con i Canto Libero
Canzoni che non vogliono saperne di finire in soffitta, incardinate dentro il cuore (o nell’anima) di milioni di italiani di tutte le età. E certamente in quello degli oltre 2000 spettatori che stipavano il Gran Teatro Morato stasera, gruppo (allargato) di amici con la stessa passione: Lucio Battisti, che nella sua carriera raccolse diffusi consensi anche all’estero (David Bowie lo definì «genio della melodia»).
Battisti non c’è più dal settembre 1998, ma la sua inimitabile produzione (specie quella realizzata in coppia con Giulio «Mogol» Rapetti) non smette di essere la colonna sonora universale di svariate generazioni: a restituire con entusiasmo, e nessun timore a confrontarsi col mito, il repertorio di dodici anni della collaborazione più proficua nella storia della canzone nazionale sono i Canto Libero, progetto musicale fondato da Fabio «Red» Rosso, che conta su nove compagni di palco, una band che produce un sound di buon livello.
Rosso - che tiene il palco con movenze alla Joe Cocker e una certa somiglianza fisica con Phil Collins - ha la voce adatta al compito, anche in virtù di arrangiamenti differenti che, pur rispettosi dell’impianto armonico originale, ne assecondano la personalità esuberante e la sensibilita musicale (che è evidentemente rock).
Si comincia con il funky di «Prendila così», da «Una donna per amico» (album del 1978, e si prosegue sull’onda della sontuosa «Con il nastro rosa» (da «Una giornata uggiosa», canto del cigno di una stagione irripetibile e del quale viene eseguita anche la title-track sotto forma di cavalcata chitarristica).
Poi l’ensemble rispolvera le radici blues e soul di Battisti con «La collina dei ciliegi» (singolo del ‘73) e «L’aquila» (da «Il mio canto libero», del 1972), passando quindi alle atmosfere eteree di «Il nostro caro angelo», lasciando quindi spazio a «quel gran genio del mio amico» che domina il percorso tra realtà e subconscio di «Sì, viaggiare», preludio a «Innocenti evasioni». Anche se l’apoteosi è legata a «I giardini di marzo», cantata e applaudita in egual misura da tutta la platea.
Un intermezzo piano-voce mette in fila con bella attitudine perle intime, come «Comunque bella» e «Anche per te» (che mantiene una freschezza incredibile nelle sonorità e una vena poetica che non invecchia), mentre con «Emozioni» la band si limita a una leggera coloritura, salvo riprendersi la scena con «Anna» (1970) e quel gran pezzo degli esordi che si intitola «Non è Francesca» (1967) e fu in origine un brano beat cantato dai Balordi, prima che il cantautore di Poggio Bustone se lo riprendesse (nel 1969) e lo faccesse diventare hit senza tempo.
C’è il via libera a «Un’avventura», «Acqua azzurra, acqua chiara», «Il tempo di morire» (in ottima versione r&b, con una voce femminile in grande evidenza). Sulle note di «Una donna per amico» c’è invece la chiamata alle danze: tutti in piedi, scatenati, a saltare e gridare «il mio mestiere è vivere la vita, che sia di tutti i giorni o sconosciuta», a cui succedono «Il mio canto libero» e «Mi ritorni in mente», anch’esse tra le migliori pagine battistiane.
Più avanti sarebbe stato il tempo di Velezie e «Don Giovanni», «spose occidentali» e ragazze dal futuro incerto, apparenze e complessità hegeliane: e pure lì c’è talvolta del bello da trovare. Ma il tesoro è nascosto soprattutto tra il ‘68 e l’80, ed è con altre canzoni di quel periodo - «E penso a te», «La luce dell’Est», «Io vorrei…non vorrei… ma se vuoi», «Dieci ragazze», «La canzone del sole» - che finisce in gloria la serata.

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