Al Clerici De Gregori incanta, un Principe intenso ma non celebrativo
Mezzo secolo di «Rimmel», omaggiato con leggerezza. Francesco De Gregori affronta l’anniversario a cifra tonda di uno dei suoi album più iconici attraverso un live che ha come cuore il lavoro del 1975, avvolto tuttavia in una confezione sontuosa nella quale brillano le perle (che non necessariamente coincidono con i brani più noti: basti pensare a diamanti nascosti come «Deriva», «I matti» o «La ragazza e la miniera») di una carriera tra le più fulgide della musica d’autore nazionale.
Il live
Ma non vuol sentir parlare di celebrazione: «Troppa retorica in quella parola… diciamo che è la festa di compleanno di un vecchietto di cinquant’anni». Il live comincia con «Cercando un altro Egitto», che di anni ne ha cinquantuno (!), ma resta un convincente monito contro le violenze, piccole e grandi che siano: significativo che De Gregori la scelga per avviare il motore, considerati i tempi in cui viviamo. L’attitudine del concerto è in principio rock, con l’atmosfera elettrica che addirittura si amplifica con il pezzo successivo, «Via della povertà», che poi è la traduzione (in progress) della dylaniana «Desolation Row»: il cantautore romano la presenta dettagliatamente, ricavandone un applauso prolungato del pubblico da sold out, sul quale chiosa con un divertito «Bob non è qui con noi… ma gli farò sapere del vostro gradimento!».
Il De Gregori del nuovo secolo è libero da zavorre e idiosincrasie del passato, per cui in scaletta vanno a braccetto brani vecchi e più nuovi, come «Atlantide», «Compagni di viaggio» e «La leva calcistica della classe ‘68», preludio alle memorabili pagine di «Rimmel», il quarto ellepì in studio (dopo l’esordio condiviso con Venditti in «Theorius Campus», «Alice non lo sa» e l’eponimo «Francesco De Gregori»), che ebbe un’accoglienza controversa, salvo poi guadagnare nel tempo lo status di capolavoro che gli viene oggi universalmente riconosciuto.
Rimmel
Nel riproporlo per intero, il Principe («L’unico soprannome che mi piace: Dalla lo scelse durante il tour di Banana Republic…» spiegò un giorno) non segue l’ordine che definiva i due lati dell’ellepì originario, ma procede in ordine sparso. Mettendo comunque in fila, una dopo l’altra, «Piano bar», «Quattro cani», «Pezzi di vetro», «Il Signor Hood», «Piccola mela» (delicata poesia che non appassisce, con un’antica e struggente melodia, arricchita da una voce femminile), «Le storie di ieri», «Rimmel» (carismatica title-track che splende nel paradiso delle canzoni, con il suo inarrivabile simbolismo, «…perché ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo») e infine l’ipnotica «Pablo».
Sonorità
Manca giusto «Buonanotte fiorellino», che ricalca le sonorità da «Winterlude» di Bob Dylan (il nume tutelare, ça va sans dire), ma quella è da decenni la ninna nanna che chiude ogni concerto dell’artista, attesa in fondo, con tanto di valzer collettivo. La scenografia è semplice, resa densa da un gioco di caldi cromatismi: De Gregori – che canta, ma a tratti suona l’armonica a bocca e pure la chitarra, supportato da una band di altissimo livello – la abita lieve, spogliandosi della giacca ma senza mai mollare cappellino e occhiali scuri. Lo scatto verso il traguardo è aperto da «La valigia dell’attore», ancella ideale per le evergreen: «Alice», «Generale», «Buffalo Bill», «Sempre e per sempre», «La donna cannone».
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