Cultura

Morelli: «Per curare l’anima niente scienza, solo mente incantata»

Lo psichiatra che non prescrive psicofarmaci sarà a Brescia in occasione del festival LeXGiornate: «L’ansia va accolta, ci dice che stiamo andando nella direzione sbagliata
Raffaele Morelli durante una precedente edizione LeXGiornate - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Raffaele Morelli durante una precedente edizione LeXGiornate - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Dalla poltrona nello studio medico a quella del Costanzo Show, e poi a quelle degli interventi tra radio e tv e delle conferenze (ma in maniera dosata, dice lui). Raffaele Morelli, psichiatra e psicoterapeuta legato al pensiero junghiano e direttore dell’Istituto Riza, è abbastanza divisivo. Piace a un pubblico molto vasto, ma provoca irritazione e alzate di sopracciglia in una altrettanto vasta fetta di persone (e nel mondo accademico). Pur riempiendo le platee, c’è chi ritiene le sue teorie anacronistiche o al limite della pseudoscienza.

In effetti è lui stesso a dire di rifuggire l’idea della psicoterapia e della psichiatria per come la intendiamo oggi. Lo spiega in questa intervista, che precede la conferenza «La creatività è la casa dell’anima» che terrà il 24 settembre in piazza Vantini a Rezzato in occasione del festival LeXGiornate (in caso di pioggia al cinema Ctm, biglietti da 20 euro su Vivaticket).

Lei, oltre che psichiatra, è anche un volto noto. Cosa significa unire la professione medica con la notorietà mediatica?

La notorietà la fuggo, mi limito a fare qualche intervento in tv su argomenti che mi interessano. Tengo anche pochissime conferenze. Il mio compito è riformare l’idea omologata della psicologia che abbiamo oggi, ovvero: andare in psicoterapia per parlare della mamma, del papà, dei traumi e del passato.

E come dovrebbe essere?

Bisognerebbe sempre chiedersi cosa ci caratterizza. Se una rosa si mette a seguire dei suggerimenti esterni per fare il tulipano, sta male. C’è da chiedersi: cosa non ho ancora scoperto di me? La psicoterapia è trovare la propria pianta. In analisi si parla sempre di traumi, ma ogni dolore serve per evolvere verso ciò che si è. Tutta l’idea del «migliorare per forza» è la cosa più inutile che si possa fare. Che poi è ciò che inculcano i guru del self help. Sarebbe come dire a una quercia che deve diventare cipresso: per forza si ammala. Le nevrosi e le malattie sono azioni che stiamo svolgendo e che non ci riguardano. L’ansia invece dovrebbe essere la nostra migliore amica: ci dice che stiamo seguendo la direzione sbagliata. I disagi vanno accolti.

Lei è psichiatra, ma non prescrive psicofarmaci. Com’è possibile?

Quando ero giovane li prescrivevo, ma non facevano nulla e diventavano solo droghe. In casi gravi di schizofrenia e psicosi servono (anche se io comunque non li prescrivo), ma ribadisco che secondo me l’ansia va accolta. Una cosa utile è trasformare i disagi in immagini: vedi l’ansia che arriva e puoi trasformarla in un panorama, in un profumo. Così facevano gli antichi. La conoscevano meglio di noi. E poi ci sono anche alcuni grandi come Jung che ne hanno dato letture interessanti.

A Brescia per LeXGiornate porterà un incontro intitolato «La creatività è la casa dell’anima». Cosa tratterà?

Se dico di immaginare una pianta, un profumo o un ricordo, nel giro di un paio di secondi la si vede. Il cervello passa in rassegna miliardi di immagini, ma si fa tutto su due piedi. Ci si deve affidare, senza cercare per forza le cause a tutto. Non si sta male perché – per esempio – qualcuno ci ha lasciato: si sta male perché l’anima vuole partorire una persona che non ha ancora visto, e lo fa attraverso il dolore. Noi non soffriamo per il passato e per i ricordi, «per i genitori», ma perché l’anima cerca la persona.

Cosa c’entra dunque la creatività?

Oggi tutti stanno male perché non ci si fa più domande. L’autolesionismo, i suicidi in adolescenza e i disturbi alimentari sono aumentati a dismisura. Tutti si riempiono di psicofarmaci perché abbiamo perso il mistero. Non lo cerchiamo più. Ma senza il mistero non si può vivere. Dovremmo tornare alla mente incantata, come i bambini che giocano per ore e ore. Sono pronti a ogni magia, vivono di fiabe. Noi le abbiamo perse, ma se le perdiamo moriamo. Se l’anima muore, si sta male. La mente incantata è incantata quando crede, ma anche quando è immersa nelle azioni minime, di routine, ma anche quando si fa qualcosa di creativo, in silenzio e da soli. La solitudine in questo senso è positiva. Più stiamo meglio stiamo? No, più stiamo peggio stiamo. Io non chiedo ai pazienti di raccontare la storia o la causa dei mali. Chiedo: «Per cosa è portato o portata? Quali immagini vivono dentro di lei?». Il pensiero razionale non è fatto per avvicinarsi all’anima. Solo gli scienziati idioti vogliono usare la mente per avvicinarsi all’anima. Per il virus serve il vaccino, contro i batteri l’antibiotico. Ma per curare l’anima non serve la scienza. Serve la mente incantata.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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