Cultura

Miguel Rio Branco: «La mia arte fotografica? L’ho imparata facendo»

L'artista brasiliano ospite ieri alla Laba di Brescia, poi inaugurerà la sua antologica da Paci
  • Miguel Rio Branco ospite alla Laba
    Miguel Rio Branco ospite alla Laba
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  • Miguel Rio Branco ospite alla Laba
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    Miguel Rio Branco ospite alla Laba
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    Miguel Rio Branco ospite alla Laba
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Se gli si chiede che tipo di artista sia, non si incasella: per lui "fotografo" è riduttivo, lui cucina con l’arte. Cinema, pittura, piano sequenze che trasmettono umidità tropicale... Ed è un "pain in the ass" a volte, una spina nel fianco. È lui stesso a definirsi così: «So mandare le persone ai matti sin da quando sono piccolo. Mio figlio avrà 5 anni tra qualche mese: so che diventerà qualcosa. Sua madre ha una forte personalità, io idem».

Miguel Rio Branco in questi giorni è a Brescia: l’artista brasiliano domani (venerdì) inaugurerà la sua antologica alla galleria Paci Contemporary, e nel frattempo ha regalato un po’ del suo tempo al pubblico della Laba, la Libera Accademia di Belle Arti con sede in via Vender. L’aula magna ieri pomeriggio era piena di studenti (di fotografia, ma anche di tutti gli altri corsi) pronti ad ascoltare la storia della sua carriera lunga più di 40 anni. E, prima di dedicarsi a loro, Rio Branco - classe 1946, figlio di un diplomatico e studente a New York negli anni ’60 - ha chiacchierato anche con i giornalisti. Rio Branco, questa antologica è la prima in Italia dopo molti anni... L’ultima fu a Palazzo Fortuny a Venezia nel 1988, se non contiamo un lavoro nel 2001 a cura di Germano Celant alla collezione Peggy Guggenheim (con lo scultore Tunga, ndr).

Cosa dirà agli studenti di Laba?

Credo nell’istruzione, ma ci sono modi diversi per imparare. Io stesso ho imparato facendo, e anche se feci studi pittorici, mi interessai subito alla fotografia. Fino agli anni ’70 non conoscevo Cartier Bresson, Brassai... Le mie influenze arrivano dalla pittura, ma soprattutto dal cinema, dato che da giovanissimo ebbi l’occasione di passare alcuni mesi su un set. Lì scattai in bianco e nero, a colori, in due formati. Imparavo facendo. Penso che gli studenti d’arte debbano come prima cosa guardare a ciò che vogliono, e non a ciò che serve per entrare nel mercato. Ora ci si preoccupa molto della domanda, e sembra che l’importante siano l’idea e il concetto, e non l’estetica. Quindi, cosa dirò agli studenti? Uscite da scuola! La scuola ti dà la tecnica per scolpire o dipingere, ma molti artisti non le usano nemmeno.

In quale direzione sta andando la fotografia?

Verso la tomba. Ora c’è la fast-photography, non ci si cura della composizione. E poi i curatori lavorano fianco a fianco con i mercanti d’arte: ci sono molte pressioni da parte delle gallerie. La situazione è complicata. Chi crede nell’arte deve chiedersi fino a dove può arrivare, dove sta il confine.

C’è un’opera che ritiene quintessenza del suo lavoro?

Non una: ci sono alcuni pezzi chiave che aprono la porta alla lettura degli altri. Quando ho iniziato a lavorare nel cinema ho capito che a volte non è la sequenza ad essere importante: una scena può rendere le altre più forti. Ci sono foto che risultano più belle, ma magari non funzionano con le altre. Di certo non ritengo emblematica la cover scelta da Taschen per il libro. Io proposi quella della protesi con denti d’oro. Una sua dote è quella di parlare di società e di problemi senza rinunciare all’estetica dello scatto.

Come fa?

Ho occhio, ho nozione delle composizioni: le uso. Non devo per forza scattare una brutta foto perché la situazione è brutta. Certo, alcune immagini devono essere dure, perché la realtà lo richiede. Ma non credo che dovrei scattare una foto terribile a qualcosa di terribile. L’estetica non uccide lo spirito.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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