Cultura

«Mia mamma tra i sopravvissuti del Gleno, gli invisibili della tragedia»

Agli scampati dalla tragedia è dedicato un volumetto scritto da Francesco Zeziola: «I Sopravvissuti: gli "invisibili" della tragedia»
La diga del Gleno, l’immagine sulla brochure dei programmi per il centenario - Foto della sottosezione Cai della Valle di Scalve
La diga del Gleno, l’immagine sulla brochure dei programmi per il centenario - Foto della sottosezione Cai della Valle di Scalve
AA

Solo il silenzio riesce a contenere il dolore più grande. E loro, i «sopravvissuti» - il dialetto ha una definizione forse più calzante: gli «scampati» -, si sono chiusi in un silenzio che è durato cent’anni. Tanto è il tempo passato dal Disastro del Gleno, la furia che con l’onda della diga sventrata ha spazzato via tutto quel che ha incontrato, dalla Val di Scalve al fondo della Valcamonica.

Di quel tragico evento si è parlato e scritto, si sono contati i morti che sono stati cinquecento, si è fatto un processo che ha lasciato più amarezza che senso di giustizia. Ma dei sopravvissuti chi si è preso cura? A loro, proprio nell’occasione del centenario, è dedicato un volumetto scritto da Francesco Zeziola: «I Sopravvissuti: gli "invisibili" della tragedia» (Valgrigna edizioni, 104 pagine).

«Sono figlio di una sopravvissuta» spiega Zeziola, grande appassionato di ricerca archivistica: «Mia mamma, Paola Dellasera, viveva a Corna Camuna, frazione di Darfo, con i genitori Giovanni e Caterina e tre fratelli più piccoli. Aveva nove anni quando la tragedia del Gleno le portò via la mamma e i fratellini. Con questi tutto: casa, indumenti, fotografie, ricordi...». Rimase orfana, con un padre sconvolto e disperato. Quale testimone più adatto per raccontare l’esperienza dei sopravvissuti?

Francesco Zeziola ha dedicato al Gleno ricerche e impegno, ma pare quasi non riuscire ad affrontare a viso aperto il cuore della vicenda. Forse perché le conseguenze le sente ancora sulla propria pelle. Segue un itinerario indiretto, che prende le mosse dal «Cappellino di Corna», la chiesetta che venne lambita dalla tragica piena e che ora ne ricorda le vittime locali. Riprende il filo già in parte dipanato da Davide Bassanesi, che vent’anni fa registrò le voci dei sopravvissuti e che ricorda: «Ci stavano aspettando. Per ottant’anni avevano atteso una domanda: quella che avrebbe consentito loro di sgretolare le pareti che imbrigliavano il passato e di far scorrere ricordi travolgenti e dolorosi».

Zeziola riporta anche un’analisi della «sindrome dei sopravvissuti», di come l’evento tragico resti marchiato a fuoco sulla loro pelle, indicibile: «Il loro silenzio è un potente e doloroso messaggio». La testimonianza di Micaela Coletti, presidente del Comitato sopravvissuti al Disastro del Vajont, manifesta quanto sia comune a chi resta l’insopportabile peso del trauma, e quanto importante sia vincere la barriera del silenzio. Solo dopo tutto questo Zeziola riesce a «parlare» con la mamma, in un’intervista immaginaria ma non meno radicata nella verità.

Cosa accadde il primo dicembre 1923

Sono le 7,15 del primo dicembre 1923 quando la diga appena costruita sul corso del Gleno cede alla spinta della massa d’acqua. Il lago artificiale diventa valanga. Innalzata con materiali scadenti, non ben progettata? Il processo celebrato a Bergamo non farà piena luce sulle cause. È un sabato, una giornata piovosa. Paola Dellasera esce di casa per andare a scuola, ma prima deve passare dal macellaio per lasciare la lista della spesa. Ed è quella deviazione che la salva: il negozio è un poco più elevato rispetto al corso del fiume Dezzo. Paola è appena entrata quando «in un attimo si sente un forte vento e rumore». Il macellaio abbassa la saracinesca, le persone cercano istintivamente di scappare ancora più in alto. Terrore, sfacelo, disastro. Passano ore concitate e confuse prima che Paola riesca a sapere che l’ondata s’è portata via tutto il suo mondo: la casa, mamma Caterina e i fratelli, Elisa che ha sei anni, Antonio Vittorio che ne ha cinque e Isidora che ne ha solo due. Papà Giovanni si è salvato perché era al lavoro in ferriera.

«Chiese di non fare domande»

Da quel giorno Paola si sentirà sempre in pericolo, sospesa nell’incertezza, per una vita intera. E la vita non le farà sconti. Non vorrà mai parlare della tragedia del Gleno. La cifra di quel dolore immenso sta racchiusa nella testimonianza di una sua nipote: «A noi chiedeva di non fare domande, augurandoci di non avere figli perché poi soffrono troppo se perdono la mamma».

Icona Newsletter

@News in 5 minuti

A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato