Cultura

Mencarelli: «Racconto la solitudine di chi convive con la disabilità grave»

Il poeta e scrittore parla del suo nuovo romanzo «Fame d’aria»
Daniele Mencarelli - Foto Guido Fuà
Daniele Mencarelli - Foto Guido Fuà
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«Ho un figlio con lievi disturbi dello sviluppo (altra cosa rispetto all’autismo alla massima gravità che racconto nel romanzo) e per 12 anni ho frequentato i centri di neuropsichiatria infantile. I nuovi manuali della salute mentale che arrivano dall’America, stabiliscono il grado della malattia.

C’è un autismo detto ad "alto funzionamento" in cui il livello cognitivo spesso è nella media, e il problema è più nelle relazioni. L’autismo a "basso funzionamento", invece, registra un livello cognitivo sotto la media e l’ammalato è disperso in una fitta nebulosità».

Il poeta e scrittore Daniele Mencarelli ricorda con orgogliosa tenerezza la sua prima opera teatrale «Agnello di Dio», andata in scena lo scorso anno al Centro Teatrale Bresciano (a breve lo spettacolo andrà in tour nei teatri italiani), e parla in modo quasi accorato di una malattia con la quale ha un’esperienza diretta e che racconta nel suo quarto, poetico e tragico romanzo: «Fame d’aria» (Mondadori, 171 pp., 19 euro).

L’operaio Pietro Borzacchi è in viaggio con il figlio adolescente Jacopo verso una località balneare pugliese, per raggiungere il resto della famiglia. Giunto al piccolo paese di Sant’Anna del Sannio, la vecchia auto ha un guasto e devono fermarsi. Li soccorre Oliviero, un meccanico gentilissimo, e trovano ospitalità presso Agata, proprietaria di un bar che dispone di alcune camere. La cameriera Gaia, intelligente e vivace, intuisce per prima che Jacopo è autistico e che Pietro vive ai bordi di un inferno fatto di sofferenze, rimorsi per non poter dare cure più consistenti al figlio, strazio per vederlo crescere come indifferente al mondo.

Ma soprattutto Pietro è angustiato dai tempi lunghi della neuropsichiatria pubblica. Quando si tratta di una malattia dello sviluppo, una diagnosi dopo 8 o 10 mesi, significa aver perso un tempo importante nella crescita del bambino. Ma ricorrere alle terapie a pagamento per molte famiglie che magari vivono con il reddito di cittadinanza, è impossibile. «L’abbandono sociale nei confronti della disabilità grave - spiega lo scrittore - è uno dei tanti temi assenti nel dibattito pubblico. Può essere causato da mille motivi, ma in primis dalla malattia e dalla povertà. E quando queste due condizioni critiche si sovrappongono, il rischio è quello di avere esistenze lasciate in balìa di un male esploso ormai in tutto il mondo occidentale e destinato a diventare un’altra delle nostre emergenze nazionali».

Il tormento di Pietro per il figlio, che ha soprannominato "Scondro", è più orgoglio ferito o sofferenza di sconfitto?

Credo sia entrambe le cose. Un padre spesso entra in conflitto con la malattia, anche se sa che potrebbe essere sconfitto. E ciò alimenta un disamore, suscitato dall’impossibilità di atterrare il destino, perché anche l’amore ha un limite e invariabilmente sfocia nel disamore. Ma Pietro non è una bestia: è un essere umano, che a un certo punto smette di amare, ma non solo il figlio: smette di amare anche la vita.

Spesso i genitori dei ragazzi autistici, possono opporre alla malattia solo l’eroismo dei loro sacrifici?

I genitori dei ragazzi autistici non vogliono essere considerati eroi: loro vorrebbero solo aiuto. Sono eroi perché lasciati da soli, ma poi l’eroismo all’assistenza totale ha un limite e alla lunga gli eroi passano dal sacrificio consapevole alla frustrazione e all’infelicità. E persino al desiderio reale di finirla il prima possibile. Il nostro è ancora un Paese che vive di emigrazione sanitaria, e al Sud ha un’assistenza medica peggiore che al Nord. Le famiglie andrebbero affiancate e tutelate. Ci vuole un’attività pubblica che riempia le parole vuote di sostanza economica da destinare ai malati, che non possono essere affidati solo all’eroismo delle famiglie.

Nella tappa forzata, Pietro e Jacopo trovano a Sant’Anna del Sannio un’ospitalità affettuosa e confortevole: nei piccoli centri la solidarietà è ancora praticata come un valore?

Credo che l’umanità sappia reagire sempre nel modo giusto quando incontra facce dolenti come quelle che si ritrovano davanti gli abitanti di Sant’Anna del Sannio quando arrivano Pietro e Jacopo. In Agata, la proprietaria della pensione (anche la sua vita è stata travagliata), Oliviero il meccanico e Gaia la cameriera (che scopriremo essere anche altro), la compassione risveglia la capacità di dare aiuto, come fa buona parte degli Italiani in certe situazioni. In Italia l’associazionismo è una realtà straordinaria: siamo un paese che si mette a disposizione dell’altro, ma non può bastare. Quello che può fare lo Stato è a un altro livello e compete a chi amministra il Paese senza obbedire solo all’economia: la gente che soffre viene prima di tutto.

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