Cultura

Marco Paolini: «Il genoma ci salverà dall’estinzione»

Mercoledì 24 agosto alle 19 lo spettacolo nella cornice del Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane a Capo di Ponte
Marco Paolini è un drammaturgo, regista, attore, scrittore e produttore cinematografico italiano - © www.giornaledibrescia.it
Marco Paolini è un drammaturgo, regista, attore, scrittore e produttore cinematografico italiano - © www.giornaledibrescia.it
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Dai batteri fino a noi, passando per tutti i nonni e tutte le nonne che ci hanno preceduto: «Antenati», di e con Marco Paolini, è un «grave party», una festa tombale che riporta in vita - non come zombie, più come spettri amichevoli - gli avi che si sono susseguiti nel corso di quattromila generazioni.

Lo spettacolo, per di più, andrà in scena in un luogo di perfetta suggestione: la cornice sarà il Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane (Capo di Ponte), in Valle Camonica, dove domani, mercoledì 24 agosto, alle 19 Marco Paolini porterà in scena la pièce aprendo la rassegna «Voci umane», organizzata dalla Direzione Regionale Musei Lombardia. Dopo Paolini, nel Bresciano arriveranno anche Laura Curino (con «La lista» il 27 agosto a Cividate Camuno) e Silvia Giulia Mendola (a Desenzano il 3 settembre con «La casa degli spiriti»).

Il biglietto costa 5 euro, acquistabile in loco fino a esaurimento posti o su Vivaticket: il pubblico assisterà allo spettacolo sui cuscini portati da casa. In caso di pioggia ci si sposterà nel Palazzetto dello Sport di Capo di Ponte.

Abbiamo intervistato l’attore.

Lei con i suoi spettacoli spazia molto tra passato, presente e futuro: qual è il fine?

Per lungo tempo mi sono occupato di memoria e ho deciso di spostare lo sguardo sul presente con un occhio in avanti: era necessario, dato che ho un’età in cui bisogna diffidare della memoria e dei messaggi generazionali.

«Antenati» parla delle generazioni che ci separano e collegano ai progenitori comuni: ci racconta qualcosa?

Il mio non è un interesse araldico o semplicemente scientifico, ma parto dall’idea che il nostro genoma contenga messaggi in bottiglia per la nostra specie. Partito da lì, ho voluto ricreare una riunione di famiglia a teatro. Per guardare al futuro, anche perché ho la sensazione che l’abbiamo fatta grossa: abbiamo esposto la specie all’estinzione. Il pretesto quindi è ironico, ma è una scusa per costruire un ritratto di preistoria possibile (non la preistoria) per riscoprire che non siamo soli, ma parte di una comunità. Da questo racconto escono varie figure, un numero limitato di antenati: quattro migliaia di coppie che portano alla nostra discendenza.

Negli ultimi anni sono diverse le opere che hanno risvegliato l’interesse rispetto all’umanità, alle sue origini, alla sua storia. Qual è l’urgenza del pubblico secondo lei?

Non so se è un’urgenza. Io mi affido a Telmo Pievani, accademico con cui ho collaborato per «La fabbrica del mondo» su Rai3. Avevo confidato a lui le mie suggestioni, cercando un autorevole parere per non dire castronerie. L’argomento mi interessa molto e credo ci sia curiosità attorno ad esso, ma non da giustificare un’opera teatrale. Non basta, perché non è né un articolo né un libro, ha un linguaggio proprio che deve creare coinvolgimento.

Lei dice che l’umanità è funambola: in che senso?

La stabilità è una conquista recente, di dodicimila anni o poco più, arrivata con la rivoluzione agricola. Prima eravamo uno spettacolo viaggiante. Ora abbiamo riserve, luoghi in cui rifugiarci. Ma oltre agli aspetti positivi che la stabilità porta con sé, ci sono quelli negativi: siamo una specie invasiva, causa di estinzione di altre (e anche di se stessa).

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