Manuele Fior: «Per il graphic novel è davvero un momento senza precedenti»

«Un momento senza precedenti», lo definisce: secondo Manuele Fior, premiato e proficuo fumettista e illustratore, il mondo del graphic novel sta vivendo un periodo d’oro. E la conferma arriva anche dalle diverse mostre dedicate a quest’arte figurativa.
L’ultima in ordine di tempo è proprio quella dedicata a Fior, artista la cui «Antologica» sarà alla Fondazione Cominelli di San Felice del Benaco (in via Padre Santabona) dal 2 luglio al 28 agosto, il sabato e la domenica dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15 alle 19, inserita nel ciclo di esposizioni «Dal segno al sogno». La vernice di sabato prossimo è in programma alle 18.30, alla presenza dell’artista e del curatore Marco Galli, che guiderà anche un incontro domenica 3 alle 10.45.
Fior: secondo lei il mondo di fumetto e illustrazione sta vivendo un buon periodo?
«Ottimo: in Italia ci sono state altre epoche in cui il fumetto aveva grande popolarità, ma l’andamento è sempre stato ondivago. Ora è il graphic novel a stare acquisendo una buona posizione. Perché, come il rock o il pop, sta raccontando il ritmo degli anni. Ci sono persone che decidono di raccontare storie - autobiografiche, biografiche o d’invenzione - attraverso il fumetto: sta diventando una maniera ideale per esprimersi».
Forse anche per la moderna fruizione delle immagini?
«La questione sta proprio lì: nelle immagini che arrivano al cervello. La nostra società tecnologica vive di immagini, i nostri cervelli vivono di immagini, e la mente umana ha capacità di attaccarsi subito a un’immagine per estrapolare ciò che le serve».
Questa mostra si presenta come «Antologica»: può già tirare qualche somma?
«L’esposizione vuole mostrare il mio percorso: con ogni libro provo a fare un passo in avanti. Si tratta di una lunga sperimentazione, ma non fine a se stessa. Cerco sempre di aprire nuove porte, anche attraverso tecniche diverse».
L’esposizione si concentra su tre fumetti, «Cinquemila chilometri al secondo», «L’intervista» e «Celestia»: qual è il progetto più emblematico?
L’ultimo pubblicato, «Celestia»: è un progetto molto ambizioso basato sull’improvvisazione. Anche gli altri lo erano, ma questo è corposo. Sono 300 pagine in cui si parte senza sapere dove si va, addentrandosi in territori sconosciuti e non preventivati. È emblematico della mia maniera di fare: quando lavoro, mi piace scoprire le cose come le scopre il lettore. Non senza bagagli, sia chiaro: l’idea di base e la cornice ci sono, ma ciò che accade dentro non lo so nemmeno io. In «Celestia» il punto di gravità era Venezia con la sua trasfigurazione, ma non sapevo dove mi avrebbe portato questo fulcro.

In mostra ci saranno in anteprima anche schizzi di un fumetto inedito...
Sono disegni preparatori di «Hypericon»: ho recentemente smontato da tutti i social, quindi non si sa ancora nulla e sono le primissime cose che mettono il naso fuori! Vorrei che, in questo mondo di work in progress condivisi, le opere uscissero senza che nessuno conosca alcun dettaglio, per un senso di sorpresa. Come quando andavo al cinema a vedere l’ultimo di Stanley Kubrick o acquistavo il nuovo album dei Radiohead: lasciavano spaesati perché non si sapeva nulla in anteprima.
Per quanto riguarda l’illustrazione, parte importante della sua carriera: qual è il rapporto tra parola scritta e disegno, quando non fumettato?
Un rapporto completamente diverso: il fumetto ha una chimica a se stante, procede per vignette. Nell’illustrazione di copertina, invece, un solo disegno deve dire tutto o comunque riassumere diversi significati. È qualcosa che uso spesso e che mi ha aiutato a farmi le ossa anche per quanto riguarda il fumetto. Ora è un’attività parallela: sono richieste altre competenze. Ma devo dire che in ogni caso, anche se si tratta di lavori per loro natura più «di commissione» (rispetto al fumetto che è più indipendente), non li vivo mai in questo modo: sento sempre di avere grande libertà. Anche con i mostri sacri come Cesare Pavese o Giorgio Scerbanenco.
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