Cultura

L'obiettivo di Marina Lorusso nelle carceri senza armi né guardie

La bresciana nelle prigioni brasiliane per recuperandi: un «fotogiornalismo capace di dare speranza»
  • Gli scatti di Marina Lorusso
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Detenuti con le chiavi delle celle, liberi di gestirsi all’interno del carcere. Sguardi e dettagli di vita quotidiana circoscritta da muri di cinta pronti a disincentivare le evasioni grazie a murales che ricordano: «nessuno fugge dall’amore».

Sono le persone e gli spazi raccontati negli scatti della fotografa bresciana Marina Lorusso, che compongono la mostra dedicata alle Apac (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati) brasiliane - ovvero carceri aperte e senza guardie, dove sono i «recuperandi» ad autogestire la vita comune - allestita nello spazio Thetis dell’Arsenale Nord di Venezia tra gli eventi collaterali della quindicesima Biennale di Architettura (fino al 27 novembre; ingresso gratuito).

«Desidero ritrarre soggetti che vivono in maniera straordinaria la propria quotidianità» racconta la reporter, che definisce il proprio percorso «la ricerca di una forma di fotogiornalismo capace di dare speranza».
Un sentimento evocato dai 18 scatti che compongono l’allestimento veneziano, parte integrante di «Gangcity», un progetto internazionale di ricerca sulle problematiche sociali connesse al degrado degli spazi, organizzato da Università e Politecnico di Torino, che coinvolge numerosi artisti, tra i quali Francesco Cito e Philippe Starck.

Un tema che racchiude le due passioni di Marina Lorusso, che - dopo la laurea in Architettura e vent’anni di esercizio della professione - dal 2012 ha deciso di dedicarsi alla fotografia.

«Il cambio di prospettiva è avvenuto ad Haiti, durante una visita alle opere di solidarietà della Fondazione Avsi, la stessa che poi mi ha condotto in Brasile: immortalando la dignità dei sopravvissuti al terremoto ho capito che solo tramite l’obiettivo avrei potuto salvaguardare la memoria di quelle emozioni».
Oltre ai due viaggi c’è stato un incontro speciale, quello con Alex Majoli, pluripremiato fotoreporter, uno tra i pochi italiani ammessi dalla prestigiosa agenzia Magnum, che ha anche presieduto. «Ho frequentato due master di Majoli e ho presentato il reportage sulle Apac come progetto conclusivo del primo» spiega Lorusso, ripensando alla commozione quando, per accoglierla nel loro carcere, una cinquantina di reclusi hanno intonato un canto levando al cielo le braccia.

«Ho visitato tre delle 147 strutture che nel Minas Gerais, lo Stato con capitale Belo Horizonte, ospitano 3.500 persone. All’interno ognuno viene responsabilizzato e acquisisce nuovi ruoli utili alla vita sociale, giorno dopo giorno, in base ad un percorso di recupero della consapevolezza del crimine commesso. È un modello che coinvolge anche le famiglie, introdotto negli anni Settanta da un gruppo di volontari cattolici guidati dall’avvocato Mario Ottoboni. Il tasso di recidiva è molto basso, solo il 15% torna a commettere reati».

La prossima ricerca sarà dedicata a Brescia. «È arrivato il momento di posare lo sguardo sulla mia città, sto cercando di osservarla in modo inedito e per farlo mi confronto con Alex Majoli e Daria Birang, editor delle mie fotografie. La professione del reporter è spesso associata all’idea di scattare immagini dall’impatto scioccante e di denunciare situazioni drammatiche. Tuttavia esiste anche un altro approccio, che desidero continuare ad esplorare: farsi testimoni dell’esistenza di quelle persone che senza clamore si impegnano in opere per la collettività».

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