Lezioni di Storia al Grande: l'esordio con Vito Mancuso su Gesù ribelle

Sarà il teologo Vito Mancuso ad aprire, domani alle 11 sul palco del Teatro Grande a Brescia, il nuovo ciclo delle Lezioni di Storia, le conferenze che Fondazione Teatro Grande organizza in collaborazione con la casa editrice Laterza. Sei incontri dedicati quest’anno ai «Ribelli», uomini e donne del passato che, «mettendo in discussione i costumi, le mentalità e le regole del loro tempo sono riusciti ad aprire orizzonti nuovi».
Dopo quella di Mancuso, le altre lezioni (27 gennaio, 3, 10 e 24 febbraio, 2 marzo) saranno tenute da Michela Ponzani, Francesca Cenerini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Luigi Mascilli Migliorini e Loris Zanatta. Tutti i relatori saranno affiancati dalle voci di Elena Vanni e Chiara Continisio. I biglietti per i singoli incontri (10 euro) e l’abbonamento a 6 lezioni (50 euro) si acquistano alla biglietteria del Grande e online sui siti del teatro e su Vivaticket (per gli studenti c’è uno sconto del 50%).
Vito Mancuso ha fondato e dirige a Bologna il «Laboratorio di Etica», e insegna al Master di Meditazione e neuroscienze dell’Università di Udine. I suoi libri hanno molti lettori e le sue idee, che lui stesso definisce «poco ortodosse», hanno suscitato spesso discussioni. Domani proporrà la sua interpretazione della figura di Gesù: «l’ultimo grande profeta di Israele» che proclamando l’imminenza del regno di Dio «annunciò l’irruzione dell’eterno nel tempo e la conseguente sua frattura».
Professor Mancuso, la sua lezione si intitola «Gesù: la rottura della Legge». In che senso Gesù fu un ribelle e quale fu la «rottura»?
Senza evocare l’idea di ribellione e di rottura non si spiegano Gesù e l’effetto della sua azione. Da un lato venne crocifisso, e questo rimanda a una rottura di tipo politico; dall’altro nacque da lui il cristianesimo, e questo rimanda a una rottura di tipo religioso rispetto all’ebraismo. A Brescia tenterò di ragionare su quale delle due rotture sia più plausibilmente riconducibile a Gesù.
Lei ha definito Gesù «un profeta escatologico apocalittico»…
Tutti gli studiosi del Nuovo Testamento affermano che il concetto centrale della sua predicazione era il regno di Dio. Ma Gesù non lo concepiva come un’entità celeste: considerava imminente la venuta di Dio nella storia, l’attendeva nell’arco della sua stessa vita. Questo rinnovamento del mondo sarebbe stato escatologico, cioè definitivo, e sarebbe avvenuto tramite un’apocalisse.
Anche l’etica da lui predicata, a suo parere, è legata a questa attesa?
Sì. Questa è un’interpretazione minoritaria, non solo mia, che ha più di cento anni. Cominciò in Germania con Johannes Weiss e venne diffusa da Albert Schweitzer, il noto medico e teologo, premio Nobel per la Pace nel 1952. Il mio pensiero, frutto delle ricerche di cui parlerò anche nel prossimo libro, che penso di pubblicare a fine anno - è che l’etica predicata da Gesù va compresa in tale prospettiva, è un’etica «ad interim». Affermazioni dure come «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti», si riferiscono a questa visione: sta per avvenire qualcosa di così importante che tutto il resto diventa secondario.
Gesù dice: «Sono venuto a portare non pace, ma spada», ma anche «beati i miti», «beati gli operatori di pace»…
Sta semplicemente dimostrando che il suo non è un catechismo in cui tutto deve tornare, ma è un pensiero al servizio della vita. Certe volte nella vita si deve dire «beati i miti», perché sentiamo che quelle sono le persone migliori. Ci sono invece situazioni nelle quali occorre prendere la spada, avere l’ardore di reagire. Gesù non era un ideologo astratto, la sua è la testimonianza di un uomo che viveva con grande passione e intelligenza dei tempi. Tutto il senso della vita spirituale, quando è vera, consiste nel mettersi in condizione di discernere. Non siamo chiamati a essere soldatini obbedienti, perché questo non è vivere da esseri umani liberi e responsabili.
Alcune letture attribuiscono a Gesù anche una dimensione politica: fu crocifisso dai Romani perché visto come un nemico che voleva liberare Israele dall’oppressione straniera.
La crocifissione era una pena inflitta ai sediziosi, ai nemici dell’impero: di certo i Romani videro in lui anche una minaccia politica. Penso tuttavia che sia unilaterale la prospettiva - risalente al filosofo settecentesco Hermann Samuel Reimarus e ripresa nel ’900 da diversi autori - secondo la quale lo scopo originario di Gesù era di tipo politico e furono i discepoli a renderlo religioso dopo la sua uccisione. Come ho detto, Gesù era un profeta apocalittico e la sua azione non può essere compresa senza il fatto di voler parlare e agire in nome di Dio. Egli è innamorato profondamente di Dio e della sua giustizia.
Lei invita oggi a «fare del proprio territorio interiore un regno di Dio»…
Concluderò proprio così la mia conferenza bresciana. Gesù pensava che il regno di Dio sarebbe concretamente arrivato, ma questo non è ancora accaduto. Il suo fu un errore cronologico, ma fu anche teologico e filosofico? L’unico luogo nel quale posso far scendere il regno di Dio è la mia interiorità. Lì una persona può scegliere di essere territorio di Dio. Non del mondo, dello status quo, della forza o della furbizia, ma di Dio, con tutte le virtù che promanano da questo concetto: giustizia, pace, mitezza, amore, accoglienza… Sono convinto che è questo a rendere quanto mai pertinente e attuale il messaggio di Gesù: si può diventare un regno di Dio oggi. «Sotto un cielo di ferro e di gesso, l’uomo riesce ad amare lo stesso», cantava il mio amico Lucio Dalla. Si può fare, e chi lo fa cammina sulla stessa strada di Gesù.
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