Cultura

Le lacrime silenziose dei figli della Seconda Guerra Mondiale

Silvana Patriarca autrice di un saggio sui nati dagli incontri tra soldati afroamericani e donne italiane
In copertina (dalla rivista «Cinema», 1950), Angelo Maggio durante le riprese del film «Il mulatto»
In copertina (dalla rivista «Cinema», 1950), Angelo Maggio durante le riprese del film «Il mulatto»
AA

«Figli della guerra» venivano definiti i bambini nati alla fine della Seconda guerra mondiale dagli incontri tra soldati alleati di colore e donne italiane, bambini che gli afroamericani chiamavano «brown babies» e che in Italia erano identificati, con un’espressione a connotazione razzistica, come «mulattini». Silvana Patriarca analizza nel saggio «Il colore della Repubblica. 'Figli della guerra' e razzismo nell’Italia postfascista» (Einaudi, 230 pagine, 27 euro) le percezioni di razza/colore tra diversi attori, ovvero autorità statali e locali, religiosi, registi, genetisti, psicologi, gente comune... Notevole la sezione che illumina il dolore delle donne, spesso tacciate di vendersi al miglior offerente; donne aggredite, insultate, brutalizzate dalle comunità di nascita. Accanto a loro, le lacrime silenziose dei bambini, la ricerca del padre nero perduto, le angherie e talora le aggressioni subite a scuola o in strada. Abbiamo intervistato l’autrice.

Una volta rimaste incinte, quale fu la sorte delle donne tacciate di essere «segnorine»?
Molte cercarono, per certi versi comprensibilmente, di liberarsi di questi bambini che, avendo la pelle scura, rendevano impossibile nascondere quella che veniva vista come una colpa: la colpa di un rapporto extramatrimoniale e per di più con un soldato straniero non bianco. Dobbiamo ricordare gli stereotipi inferiorizzanti che la cultura italiana di quel periodo ancora aveva nei confronti dei neri e come il fascismo fin dal 1937 avesse proibito e criminalizzato le relazioni interrazziali. In generale non era facile vivere con lo stigma della ragazza madre: uno stigma che colpiva severamente le donne in una società molto maschilista, specialmente l’Italia degli anni Cinquanta.

Quale fu il destino riservato ai loro figli?
Molti di questi bambini, probabilmente la maggioranza, furono abbandonati nei brefotrofi e crebbero in vari istituti religiosi. La documentazione archivistica ci dice che soffrivano dell’assenza dei genitori e della crudeltà degli altri bambini, che li prendevano in giro. Diversi caddero in depressione, ebbero problemi a scuola, soffrirono di problemi di identità. Da testimonianze degli assistenti sociali sappiamo che alcuni bambini cercavano di sbiancarsi mettendosi della farina sulla pelle o addirittura tentando di raschiare il colore scuro con la cartavetrata. Alcuni trovarono conforto nella presenza di altri bambini come loro. Quelli che crebbero con la famiglia materna e che avevano la fortuna di essere circondati dall’affetto dei familiari incontrarono minori difficoltà. Numerosi furono i bimbi nati da legami autentici e profondi.

Qual è il caso che l’ha maggiormente colpita?
Se parliamo di un legame affettivo autentico, è certamente la storia della signora Silvana Galli, che nel 2012 ha anche dato alle stampe le sue memorie, nelle quali racconta del suo incontro con un soldato afroamericano che fu il suo primo ragazzo e da cui ebbe un figlio. La sua vicenda ci ricorda quello che i documenti di quel periodo - tra cui le testimonianze letterarie - hanno per lo più nascosto, vale a dire che ci furono rapporti affettivi tra donne italiane e soldati afroamericani, che questi rapporti, insomma, non si riducevano a violenza o prostituzione.

Perché considera il libro «Nero di Puglia» di Antonio Campobasso il documento-principe della condizione di razzismo ed emarginazione vissuta dai
«figli della guerra»?

È l’unica testimonianza letteraria finora prodotta da un «figlio della guerra». Ha dato voce all’esperienza dell’autore, che in parte anche altre persone nate nelle stesse circostanze hanno condiviso: quella dell’abbandono e del misto di ostilità e disprezzo che spesso incontravano nella società. Il suo valore letterario venne riconosciuto al momento della pubblicazione, ma purtroppo non servì a stimolare una maggior consapevolezza sull’esistenza di altri italiani afrodiscendenti nati alla fine della guerra e sullo stigma di cui erano stati spesso vittime.

E perché è consigliabile la lettura del libro di Leonardo de Franceschi «Il Nero di Giovanni Vento»?
De Franceschi ha ricostruito con grande ricchezza di documentazione l’origine e la produzione di un film notevolissimo - e ingiustamente dimenticato - degli anni Sessanta, di cui anch’io parlo nel mio libro, focalizzandomi soprattutto sulla sua ricezione. È un film incentrato sul quotidiano di due «figli della guerra» nella Napoli degli anni Sessanta. De Franceschi, che è riuscito anche a rintracciare i protagonisti del film, ricostruisce il percorso del regista e fornisce una lettura del film molto stimolante e importante per la società di oggi.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia