«L’AI non potrà mai capire le intenzioni di un autore»

Sulla piattaforma «Will robots take my job?», che calcola la possibilità per diversi professionisti di essere sostituiti in futuro dalle macchine, il lavoro di traduttori e interpreti raggiunge una percentuale di rischio del 73%. Ma nel vasto mare delle traduzioni c’è una nicchia che forse resisterà più a lungo: quella dei traduttori di opere letterarie. Ad essi la Nuova Libreria Rinascita di Brescia dedica un interessante ciclo di quattro incontri, «In altre parole», con inizio mercoledì prossimo, 23 ottobre, alle 18.45.
Fra le traduttrici invitate a raccontarsi c’è Silvia Pareschi, che interverrà il 30 ottobre. È la voce italiana di molti fra i più importanti scrittori angloamericani contemporanei, come Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith. Ed è l’autrice di «Fra le righe. Il piacere di tradurre» (Laterza, 144 pp., 16 euro), dove spiega fra l’altro - con divertenti esempi - che all’intelligenza artificiale manca una qualità indispensabile per tradurre un testo letterario.
Silvia Pareschi, qual è questa qualità?
La macchina non capisce il testo e l’intenzione dell’autore. Si possono inserire tutti i dati e calcolare tutte le statistiche possibili, ma se la macchina non capisce farà sempre errori e continuerà a produrre un output (non la chiamerei traduzione) molto piatto. Il rischio, allora, non è che la macchina riesca un giorno a tradurre come me, ma un abbassamento generale della qualità: cioè che per comodità e risparmio i traduttori vengano usati solo come revisori per correggere il prodotto della macchina.
Lei ricorda invece che «ogni nuova traduzione è una nuova interpretazione»…
Sì, perché non esiste una sola traduzione giusta di un testo, non è una scienza esatta. Ci sono tante possibili varianti quanti sono i traduttori e le traduttrici che si cimentano su quel testo. Ogni nuova traduzione, quindi, è un arricchimento per i lettori, che possono leggere le diverse versioni e trovare quella che preferiscono.
È anche necessario entrare in empatia con l’autore e il suo mondo. Lei come fa?
Si comincia andando a leggere tutto quello che ha scritto. Cerco poi di entrare nell’atmosfera del libro in tutti i modi possibili: attraverso film, musiche, letture… Mentre traducevo «Ragtime» di Doctorow, ascoltavo il ragtime, perché la sua scrittura era molto basata sul ritmo della musica.
Se lo scrittore è vivente, mi piace molto confrontarmi con lui: con Jonathan Franzen si è instaurato un dialogo che è diventato un’amicizia. In un suo romanzo, «Forte movimento», si parlava di una sismologa: c’erano tantissime parole legate a quell’ambito scientifico e ho dovuto confrontarmi con chi se ne intendeva. Se un libro parla di baseball, consulto la Federazione nazionale del baseball… Ci si crea ogni volta un’enciclopedia personale, entrando in contatto con i mondi più diversi.
Come sono i rapporti con gli autori?
Alcuni di loro si appassionano tantissimo ai problemi della traduzione. Franzen, ad esempio: lui traduce dal tedesco ed è consapevole della nostra responsabilità, perché una buona traduzione può fare la fortuna di un libro in un altro Paese. Parliamo spesso di questi problemi, gli piace spiegare le cose in modo approfondito. Mi capita quasi sempre di trovare gratitudine e interesse per il lavoro che faccio: alcuni, osservando la loro lingua attraverso il prisma di un’altra, arrivano a scoprire nei propri testi sfumature che non avevano colto consciamente.
Ha ritradotto classici come «Il vecchio e il mare» di Hemingway. Perché riprenderli?
Le nuove traduzioni vanno fatte, non per rendere contemporaneo un testo del passato, ma per rileggerlo alla luce di un nuovo modo di concepire la traduzione. Un intento più filologico, mentre una volta l’idea di traduzione coincideva con la riscrittura in un bell’italiano. Oggi si è più vicini all’intenzione originale del testo. È sempre un lavoro di dissezione del significato di ogni parola, per avvicinarsi nel modo più preciso possibile alle intenzioni dell’autore.
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