Cultura

LaChapelle: «I dipinti di Ceruti sono reportage fatti con il cuore»

Il fotografo, uno tra i più noti al mondo, a Brescia per una «lectio magistralis»: ha riletto il Pitocchetto con un nuovo lavoro originale
David LaChapelle, fotografo e artista
David LaChapelle, fotografo e artista
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Da Andy Warhol – con cui lavorò da giovanissimo – a Giacomo Ceruti, camminando a ritroso per andare sempre un po’ più in là, acidificando i colori, saturando il surrealismo e denunciando questioni sociali e ambientali pressanti: presentare David LaChapelle può sembrare superfluo, ma per chi non lo conoscesse si tratta di uno dei fotografi più noti della contemporaneità.

In questi giorni è tirato per la giacca di qua e di là – Roma, Firenze, Milano – ma ha trovato tempo anche per Brescia. Da febbraio una sala della Pinacoteca Tosio Martinengo ospita una sua vecchia serie, ma soprattutto un lavoro originale che attinge all’opera di Giacomo Ceruti. L’artista sarà in città domenica 22 ottobre alle 17 all’Auditorium Santa Giulia per tenere una lectio magistralis. Ci si prenota all’indirizzo cup@bresciamusei.com.

«Gated Community», l’immagine creata per Fondazione Brescia Musei esposta in pinacoteca - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
«Gated Community», l’immagine creata per Fondazione Brescia Musei esposta in pinacoteca - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it

Nel frattempo l’abbiamo intervistato.

Come sta andando il tour italiano, David?

Molto bene. È sempre lovely essere in Italia.

Negli anni ha dichiarato più volte di volersi concentrare sulle opere artistiche, più che su quelle commerciali. Ci sta riuscendo?

Sì, ho trovato un buon equilibrio. Mantengo le commissioni come copertine e ritratti, ma allo stesso tempo mi dedico a diverse mostre più di ricerca. In questo modo tutto è più interessante e tengo sempre alta l’ispirazione.

Anche nel caso di Brescia il lavoro è più creativo. Si ispira a Giacomo Ceruti: lo conosceva già prima della commissione da parte di Fondazione Brescia Musei?

Lo conoscevo, ma l’ho studiato più a fondo per l’occasione. Ha una fortissima empatia per i poveri e gli emarginati. I suoi ritratti sono così realistici che si avvicinano al fotogiornalismo, al reportage fatto con il cuore. Li ritrae come esseri umani e non come persone anonime.

Una fotografia della serie «Jesus is my homeboy», del 2003 - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Una fotografia della serie «Jesus is my homeboy», del 2003 - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it

La serie «Jesus is my homeboy», che fa parte dell’esposizione «Nomad in a beautiful land», ha già vent’anni. Parla ancora un linguaggio moderno?

Assolutamente. E il pubblico continua a reagire: per me è bellissimo vedere ciò che suscita nella gente. La fotografia è un medium moderno ed è difficile che un lavoro perda di smalto, continua a parlare. Questo lavoro in particolare vuole continuare a essere guida spirituale, guida alla moralità. Negli ultimi decenni il credo religioso è sempre meno presente nella vita delle persone, al contrario del materialismo. Crediamo nelle cose materiali e questo è alla base di molti problemi.

Anche «Gated community» è una denuncia al materialismo. Com’è nata?

Vicino al mio studio c’è il LACMA, il museo d'arte di Los Angeles. Durante la pandemia hanno costruito una nuova ala e davanti al cantiere c’era questa tendopoli. Trovo che oggi la celebrazione dell’arte sia solo esaltazione del valore economico dei lavori (prendiamo le aste). Un po’ come nel cinema: un film è considerato riuscito solo se sbanca al botteghino. Insomma: lì davanti al museo c’erano queste tende, simbolo potente del divario tra ricchi e poveri. Siamo peraltro a due passi da Rodeo Drive, dove si comprano vestiti solo come affermazione, per dire di avere i soldi, di potersi permettere quegli abiti, non perché servano davvero. Indossare brand significa promuovere se stessi, dire al mondo «io ho denaro». Ciò che ho fatto, quindi, è stato semplicemente applicare digitalmente alle tende che già c’erano il tessuto con i loghi.

Il soggetto è una denuncia sociale, tema a lei caro fin dai primi lavori newyorkesi, quando ritraeva i malati di Aids come angeli. Ma anche l’ambiente è un soggetto a cui tiene: ce ne parla?

Il primo pezzo ambientale che ho fatto è del 1988, «Scorched Earth». Era il ritratto di una persona in fiamme nelle foreste di Puerto Rico, con l’intento di sensibilizzare e raccogliere fondi per contrastare gli incendi. Non credo che ora la questione urgente sia la sensibilizzazione: la gente sa, sceglie solo di non crederci. Ma ci sono incendi devastanti, il clima è sballato e ciò che è stato predetto sta accadendo più in fretta di quanto la scienza prospettasse.

Ha un lavoro a cui più è affezionato?

«Station of the cross», che ho appena esposto a Roma: ho deciso di ricreare le stazioni della Via Crucis usando come soggetto il rapper italiano Tedua. Non tanto per la sua celebrità o la fama. Piuttosto, per la sua fisicità. Il suo impegno artistico durante il lavoro è stato incredibile, abbiamo scattato per dieci giorni e alla fine è uscita un’opera bellissima, frutto di una collaborazione magnifica. E stato il lavoro «most fulfilling» degli ultimi tempi. Il più appagante.

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