«La morte è il compito più difficile che ci spetta»

Morire, scrive Ines Testoni «è il compito più difficile che spetta a ognuno di noi». Un compito inevitabile, al quale tuttavia arriviamo sempre più impreparati, perché la società occidentale ha trasformato la morte in un «fantasma indicibile».
«Ci manca un linguaggio per definire che cosa accade quando, in questo spazio di diffuso benessere, infine comunque si deve morire». La studiosa bresciana - docente di Psicologia sociale all’Università di Padova, dove dirige il master in «Death Studies and the End of Life» - racconta come l’umanità si avvicina a questo momento di passaggio in un volume ricco di riferimenti all’antropologia, la psicoanalisi, la filosofia, la religione, la storia, l’attualità: «Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg» (il Saggiatore, 376 pagine, 25 euro).
Prof.ssa Testoni, lei afferma che dal secondo dopoguerra è cominciato in Occidente un processo di rimozione collettiva della morte. Cosa l’ha determinato?
Il principale fattore è la crisi delle religioni, che non dominano più lo scenario simbolico, occupato dal sapere scientifico. I successi della medicina e delle conoscenze scientifico-tecnologiche evidenziano il loro potere totale sulla nostra possibilità di vivere a lungo e meglio. Di conseguenza, questi saperi hanno assunto un’importanza dominante rispetto all’universo delle altre conoscenze che possono dare senso alla vita.
Il concetto di benessere «si è imposto come parametro primario»...
Abbiamo investito sulla qualità della vita, ed è un bene, ma tutto ciò che riguarda il fatto concreto che comunque dobbiamo ammalarci e morire ha perso qualsiasi riferimento simbolico ed esistenziale. Ciò produce un’angoscia intensa, perché in termini di razionalità crediamo che la morte significhi annientamento totale, una verità assunta come indubitabile dal discorso scientifico. La strategia più efficace per vivere bene diventa allora nascondere chi muore e istituzionalizzare i malati, affidandoli totalmente al linguaggio medico.
È attraverso i riti funebri, a cui lei dedica molte pagine, che la morte diviene un fatto sociale?
Fino alla prima metà del ’900, nella casa del defunto era allestita una lunga veglia funebre. Era possibile ritrovarsi per ricucire la ferita inferta al gruppo comunitario. Oggi, invece, i rapporti sono sempre più numerosi, ma anche più superficiali. Per i lutti traumatici del Covid si sono formati addirittura in internet gruppi di dolenti in cerca di consolazione, perché molti non hanno un parente o un amico in grado di trovare la parola giusta. Solo se si accomuna il dolore viene esercitato in modo autentico il senso della condivisione e della solidarietà.
Fa spesso riferimento al pensiero di Emanuele Severino.
Tutto il mio discorso è svolto alla luce della sua riflessione che indica con chiarezza il percorso del pensiero occidentale, segnato dalla «fede nel divenire» secondo cui siamo destinati a tornare nel nulla da cui proveniamo. Indicando invece la necessità dell’eternità del tutto, Severino ha tracciato quel «sentiero del giorno» che a mio parere, come spiego nel libro, può aprire anche nuovi orizzonti teologici.
A cosa servono i «Death Studies» che lei approfondisce a Padova?
Permettono di dar forma all’angoscia estrema. Se il terrore acquisisce profili ben definiti può essere descritto, riconosciuto e fronteggiato. Aiutano, tra l’altro, a smascherare quei retori che usano la morte come referente simbolico primario, evocando questa angoscia inconscia per manovrare i comportamenti delle masse.
Un uso politico dell’angoscia di morte?
Quello che adottò Hitler, attribuendo agli ebrei il ruolo dei grandi untori. I regimi che tendono all’autoritarismo fanno appello a questo tipo di terrore; quando accade invece che la morte colpisce realmente, la minimizzano. L’hanno fatto anche gli «autoritari» del Covid, i politici che non portavano la mascherina e dichiaravano che non bisognava fermarsi. Quelli che vedono nelle minoranze un pericolo, e nel contempo non assecondano i comportamenti salvifici autentici.
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