Cultura

«La mobilità sociale in Italia? Adesso per tutti è più difficile»

Il bresciano Guido Baglioni illustra il suo nuovo saggio sul tema «Benessere e fragilità»
Il professore di Sociologia Guido Baglioni
Il professore di Sociologia Guido Baglioni
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L’ascensore sociale italiano è guasto? Molti lo sostengono, affermando che l’Italia contemporanea ha un basso livello di mobilità sociale. La visione di Guido Baglioni, invece, è più complessa: nel libro «Benessere e fragilità. La mobilità sociale in Italia» (Franco Angeli, 176 pp., 23 euro) spiega che «la mobilità sociale ha avuto un posto piuttosto rilevante nella nostra storia, con differenze notevoli fra i diversi periodi». Un dato appare chiaro: con il XXI secolo è iniziata una fase «difficile».

Guido Baglioni è nato in Val Trompia nel 1928, ma da molti anni vive a Milano, dove è professore emerito di Sociologia dell’Università Milano Bicocca. «Quando ero ragazzo - ricorda - a Gardone V.T. c’erano due medici condotti, probabilmente del ceto medio. Ora ci sono dieci medici oltre all’ospedale, ed è probabile che fra loro vi siano anche figli di operai. Il titolo di studio è uno dei principali fattori di mobilità sociale».

Quali sono gli altri fattori, professore?
La crescita economica di medio-lungo periodo, con innovazioni strutturali di tipo produttivo, organizzativo, occupazionale. L’insieme di opportunità, compatibili con le condizioni reali, che uno Stato sa offrire ai cittadini. Lo status della famiglia di origine. E la dimensione territoriale, ossia il contesto ambientale, della città e della regione in cui si vive, cui si aggiungono le recenti interdipendenze dovute alla globalizzazione.

Che andamento ha avuto la mobilità sociale nell’Italia contemporanea?
Lo dividerei in tre fasi. La prima va dagli anni ’80 dell’Ottocento fino al termine della Seconda guerra mondiale. In essa prevale la mobilità orizzontale: non c’è un salto nella stratificazione sociale, ma ci sono movimenti migliorativi, ad esempio posizioni successive migliori nello stesso ambiente di lavoro. La 2ª fase va dal 1945 agli anni Settanta: sono i cosiddetti "30 anni gloriosi", nei quali la mobilità verticale è molto elevata un po’ ovunque, ma particolarmente in Italia e Giappone. Registriamo una forte crescita economica, aumento del benessere, consumi durevoli. Nella 3ª fase, dagli anni ’80 ad oggi, abbiamo invece un calo di mobilità sociale.

A che cosa è dovuto?
Riflette il livello complessivo del Paese: il tasso di crescita economica è più modesto e in molti settori c’è una stasi della produttività. L’Italia nel suo insieme è una nazione politicamente più debole, in ritardo in settori economici rilevanti, con un forte debito e pochi investimenti, con zone o gruppi di povertà.

La mobilità contribuisce all’equità sociale?
La mobilità sociale è un fenomeno bivalente. Accetta la concentrazione della ricchezza, pur con il correttivo fiscale, e favorisce coloro che hanno maggiori opportunità per la famiglia di origine. Nello stesso tempo opera per l’equità, perché contribuisce alla crescita della ricchezza complessiva e all’innovazione, fa aumentare le risorse per le politiche sociali, asseconda l’aspirazione diffusa a vivere meglio. Pur con le nostre fragilità, noi abbiamo un livello di benessere che riguarda l’80 per cento della popolazione, una condizione mai realizzata in precedenza.

Lei dedica un capitolo al "grande balzo" delle donne...
La tesi dominante è che le donne lavorano di più, ma arrivano raramente in posizione primaria. È vero, ma se consideriamo la logica delle tre fasi, il balzo è stato determinante. Si è imposto il problema delle loro esigenze e diritti, di una maggiore autonomia. Hanno compiuto grandi passi avanti nell’istruzione e nel mercato del lavoro. E la loro crescita rapida fra le categorie dei professionisti e del management dimostra che sono una componente importante del passaggio di mobilità.

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