Cultura

La «Lavandaia» del Pitocchetto rivive nelle pagine di Paola Carmignani

L’incontro dell’autrice de «Il silenzio della lavandaia» sarà martedì 13 dicembre alle 18.30 in Pinacoteca
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LA LAVANDAIA PARLA IN UN LIBRO
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Che bel regalo sotto l’albero di Natale! Un dono che Paola Carmignani, giornalista e scrittrice, critica teatrale del Giornale di Brescia, fa idealmente all’intera città, con il libro «Il silenzio della lavandaia» (Grafo ed., 63 pagine, 8 euro).

Il volume sarà presentato dall’autrice, in dialogo con Piera Tomasoni dell’Università di Pavia, dopo l’introduzione di Roberta D’Adda, martedì 13 dicembre alle 18.30 in Pinacoteca Tosio Martinengo, piazza Moretto 4 in città (ingresso libero, prenotazione consigliata telefonando allo 030-2977833; cup@bresciamusei.com). Paola Carmignani si avvicina da profana ad uno dei dipinti più iconici della produzione di Giacomo Ceruti. Non un saggio di storia o critica d’arte, ma un dialogo serrato con questa figura amata fin dalla giovinezza e «che non finisce di stregarmi».

Una lettura libera, personale al limite della confessione, colta e sensibile. Che dimostra come l’arte dei grandi maestri non è patrimonio degli studiosi, ma sa parlare, con intensità ed efficacia, a chiunque vi si avvicini senza timori e pregiudizi. Qui a parlare è un’opera, o meglio, una persona. Una donna, viva e di carne, a cui Paola Carmignani si accosta con circospezione e affetto, «piena di confusione» di fronte a questo irretimento, «come se lei fosse la mamma e io la bambina».

Lo fa mescolando sulla pagina, in un flusso di coscienza di cui alla fine tira i fili creando una solida tela, stralci di memorie personali, affetti privati e letterari. C’è il professor Giuseppe Tonna, che accompagnava la classe in pinacoteca, il pittore Luciano Cottini, «amico della verità» a cui l’autrice affida le riflessioni da artista, ci sono i grandi della letteratura e del teatro.

Lo sguardo della Lavandaia, le sue mani nodose, la sua figura «regale», il suo silenzio chiamano in scena la Massera da bé di Galeazzo dgli Orzi, la Christja Cunjak di Vasilij Grossman, l’Iguana di Anna Maria Ortese, la Felicita di Flaubert, e le loro indimenticabili interpreti, Maria Paiato e la bresciana Bruna Gozio.

In scena

Il teatro, non a caso. Lo sguardo di Paola Carmignani è abituato a scandagliare ogni movimento, ogni dettaglio in scena. E di questa «messa in scena» di Ceruti coglie i gesti rivelati dai dettagli, che descrivono la avandaia rimboccarsi le maniche, raccogliere i capelli la mattina davanti a un frammento di specchio prima di uscire a badare alle galline e ai suoi uomini, la fatica del bucato, la «bugada» che è impegno e arte, sapienza che dà dignità.

Personaggio, la Lavandaia, ma persona oltre la tela, attraverso la «quarta parete» bucata da quello sguardo a cui Ceruti, ribaltando magistralmente la prospettiva, dona un «qui e ora» che attraversa i secoli, e dallo spoglio cortile atterra nelle sale rivestite di velluto. Non ha un nome, la Lavandaia. Glielo dà Paola Carmignani, appellandola Rina, come la signora che dalla campagna ogni giovedì entrava nella sua casa di città per il bucato settimanale. Basta nominare le cose per renderle vive e concrete, nella migliore tradizione bresciana.

E della «brescianità, parola scivolosa» e spesso abusata, l’autrice vede nella Lavandaia il simbolo, o meglio il concentrato. Ne cerca qui le radici, scavando gustosamente nelle descrizioni concretissime della giornata della donna di casa nel «Baldo padano» di Teofilo Folengo (non a caso riscoperto e tradotto da Tonna), nella Massera da bé che elenca le proprie capacità. Sorvolando sulle lavandaie sciabordanti di Pascoli, Pompeo Bettini e Carducci, passando oltre le schiene chine al lavatoio immortalate da tanti fotografi, Paola Carmignani ritrova nelle «bambine trasognate» di Cottini quello «sguardo eterno degli infelici, in cui annega la solitudine del mondo».

È lo stesso sguardo della Lavandaia, che interroga su questa solitudine, sulla «nostra miseria umana di brave persone». Sguardo che chiede e dà una risposta, in quel silenzio e in quella postura regale che dice: «dignità». Se brescianità c’è, è questa. E la Lavandaia diventa allora la nostra Gioconda. «Il suo accenno di sorriso non lo si vede subito e scaturisce da una certa tristezza, da una severità congenita. Quel cenno di sorriso però c’è. E, come quello della Gioconda, è carico di mistero».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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