Cultura

Joan Baez, una manciata di canzoni per stregare il Vittoriale

Concerto breve ma intenso quello dell'usignolo di Woodstock per il festival Tener-a-mente
  • Joan Baez al Vittoriale
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L’universo dentro le canzoni. Ne sono bastate una manciata a Joan Baez, giovedì sera in un Vittoriale pieno in ogni ordine di posti, per dipingere un mondo e rubare l’anima a chi l’ascoltava: con leggerezza, con infinita eleganza, gettando il cuore dove la voce non sempre arrivava.

Il cielo era plumbeo sulla casa del Vate, ma l’usignolo di Woodstock, posandosi leggero sul palco, ha reso meno buia la notte. La Baez lo fa da sempre: evoca con grazia cose belle e sentimenti buoni, senza nascondere la malinconia, senza distogliere lo sguardo dal male, convinta che lottare per un ideale è già una vittoria.

Di francescana essenzialità l’ingresso in scena: Joan arriva sola sul palco, sistema il leggio, imbraccia la chitarra acustica e attacca «Un mondo d’amore», canzone sulla fiducia e sulla speranza che Gianni Morandi regalò ai suoi favolosi anni ’60; Lady Folk la propone in italiano, con imprecisioni di pronuncia che non ne intaccano la forza. La dylaniana «Farewell Angelina» e «God Is God» (scritta nel 2008 da Steve Earle) sono invece sommesse come preghiere e creano un’atmosfera quasi religiosa.

Quando compaiono il polistrumentista Dirk Powell e il percussionista, suo figlio Gabriel Harris, a confezionare un tappeto ritmico mai invadente, la folk-singer annuncia «It’s All Over Now, Baby Blue»: un misterioso brano simbolista che Bob Dylan incise nel 1965 e che pare - mai fu chiarito, in realtà - racconti la fine della relazione tra la stessa Joan e il menestrello di Duluth; poco importa, la Baez la interpreta come fosse cosa sua. 

Non ci sono dubbi invece sul significato della splendida «Diamonds and Rust», in cui lei stessa descrisse, nel 1975, il proprio amore in chiaroscuro (diamanti e ruggine) per il magnifico Bob.

I temi intimi lasciano posto a quelli sociali: dalle mille battaglie contro l’ingiustizia emerge «Deportees», un lamento per le condizioni disumane dei braccianti messicani che Woody Guthrie scrisse nel 1948 e che Joan dedica «ai rifugiati, a coloro che anche oggi - ricorda - non sono trattati come uomini».

«Joe Hill», «Jerusalem», «Me and Bobby McGee» - in chiave country, come la pensò Kris Kristofferson, prima che Janis Joplin la rapisse per farne un grandioso blues - poi «The House of The Rising Sun» (lentissima e avvolgente) e «Gracias a la vida» sono classici senza tempo, che reiterano il clima da fiaba, mentre gli accenni di «Bella ciao» e «Blümen Zind» scatenano ovazioni.

La fine arriva (troppo) presto, con «C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones» - a cui Joan Baez regalò fama mondiale - e «Here’s To You», scritta in coppia con Ennio Morricone, una canzone che ancora emoziona come poche altre. 

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