Italiani in fuga dal lavoro sempre più «tossico»: «Sintomo di una rottura epocale»

In Italia nel 2021 i lavoratori che hanno rassegnato dimissioni volontarie sono stati quasi due milioni. Nel terzo trimestre del 2022 il tasso di abbandono era cresciuto del 30,6% rispetto al 2020. Segnali di un rifiuto crescente del lavoro che, per Francesca Coin, è «il sintomo di una rottura epocale»: quella che sancisce «la fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento».
Coin, sociologa e ricercatrice, è autrice di «Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita» (Einaudi, 288 pp., 17,50 euro). Il volume sarà presentato venerdì 23 giugno alle 18.15 nella Festa popolare promossa da Bistrò Popolare e Nuova Libreria Rinascita, in via Industriale 14 a Brescia. Con l’autrice dialogheranno Valentina Cappelletti (segretaria Cgil Lombardia) e il giornalista Thomas Bendinelli.
Il libro è un atto d’accusa molto documentato su un mondo del lavoro non più vissuto come fonte di autorealizzazione. Men che meno in Italia, dove secondo il Global Workplace Report 2022 che misura la soddisfazione dei lavoratori «la percentuale di persone soddisfatte del proprio lavoro è del 4%: la più bassa nei cinque continenti».
Dottoressa Coin, lei mostra che le grandi dimissioni sono un fenomeno mondiale. Quali le cause?
La causa principale mi sembra essere un generale deterioramento delle condizioni di lavoro. Le politiche nel mondo volte alla riduzione del costo del lavoro, il controllo pervasivo della produttività e dell’efficienza, una tendenza generale alla precarietà, hanno portato ovunque un grandissimo malcontento.
La pandemia è stato uno spartiacque?
Sì, perché ha posto tante persone di fronte ad alcune verità. Hanno pesato, da un lato, il fatto di ritrovarsi chiusi in casa per lungo tempo; dall’altro, i turni massacranti in settori essenziali come la sanità o i supermercati. Le persone dicevano che si sentivano minacciate nella salute e che ai loro datori di lavoro non interessava nemmeno se erano vivi o morti. Attualmente, circa ottomila medici specialisti lasciano ogni anno il sistema sanitario nazionale, e circa sette medici e undici infermieri rassegnano ogni giorno le dimissioni.In Italia è diffusa una «cultura del lavoro tossica»?
Molti pensano che il reddito di cittadinanza sia un disincentivo al lavoro. Il primo disincentivo, in realtà, sono i salari bassi, che offrono una contropartita insufficiente per rimanere a lavorare in un contesto spesso più tossico di quanto immaginiamo, fatto di turni massacranti, di mobbing e di bullismo, di scarsa sicurezza, di vessazioni e di cultura antisindacale.
Scrive che nella mentalità nazionale «il lavoro è sempre una fortuna, anche quando è privo di retribuzione»...
Sono parole che purtroppo ascoltiamo spesso. Se il lavoro è qualcosa di cui dobbiamo essere grati, a quel punto i termini su cui si fonda il patto tra datore di lavoro e lavoratori sono già distorti.
Le dimissioni volontarie provengono in maggioranza da donne...
Questo dato non dovrebbe sorprendere. Ci si aspetta che siano madri e lavoratrici a tempo pieno. In Italia mancano ancora quei servizi - come i supporti per l’infanzia o il congedo parentale paritario per entrambi i genitori - che consentono alle donne di conciliare la vita con il lavoro.
Le nuove generazioni non vogliono lavorare?
Sono a tal punto circondate da crisi - cambiamento climatico, pandemia, crisi economica, guerra... - che gli investimenti a lungo termine non riscuotono lo stesso consenso di un tempo. Riescono al massimo a intravedere ciò che avverrà fra un anno o due. E giustamente rimanere in un luogo di lavoro dove si è infelici e sottopagati trova forme di resistenza elevate.
Da dove ripartire?
Intervenendo sugli elementi tossici di questa cultura e cambiando il modello produttivo, da uno fondato sulla compressione del costo del lavoro a uno che investa in ricerca e sviluppo.
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