«Io, nato dopo gli anni di piombo indago lo sguardo dei brigatisti»

Il terrorismo è fra i temi che il Centro Teatrale Bresciano ha affrontato in diverse epoche: da «Masnadieri», da Schiller, con la regia di Nanni Garella (1986) al recente «Valeria e Youssef» di Angela Dematté. Ora sono le origini delle Brigate Rosse ad attirare l’attenzione dello Stabile cittadino e del suo drammaturgo, Fabrizio Sinisi, al lavoro per la stesura di un testo, il cui titolo provvisorio è «Rivoluzioni» (sarà in scena nella Stagione di prosa 2024/25). Per scriverlo, l’autore di Barletta si è documentato ed ha anche incontrato alcuni ex brigatisti. Ne abbiamo parlato con lui.
Sinisi, lei è circa a metà dell’opera: che cosa ci può anticipare?
Sono nato nel 1987, dunque non ho memoria diretta degli "anni di piombo". Il testo racconterà la mia presa di coscienza di come è nato e di che cosa è stato il fenomeno delle Brigate rosse.
A che punto è il suo lavoro?
Ho scritto una prima parte sulla genesi del gruppo terroristico: dal 1969 all’Università di Trento, fino alle prime azioni violente. Sto per scrivere la seconda parte, per la quale dovrò attraversare il delitto Moro, un tema già molto raccontato, anche dal cinema.
Il suo punto di vista è particolare...
La storia degli anni Settanta e del terrorismo finora è stata raccontata da chi c’era. Il mio tentativo è quello di attraversare quegli anni dal punto di vista di una generazione, la mia, che non li ha vissuti. Ho provato anche a vedere delle possibili analogie con l’oggi.
Possibili analogie: che cosa intende?
Mi riferisco agli ecoterroristi di oggi: ho seguito il loro dibattito per scrivere il testo del recente spettacolo del Ctb «Demòni»: mi sono documentato e ho incontrato questi ragazzi. Loro si stanno ponendo le stesse domande che attraversavano gli anni Settanta, ovvero: esiste una possibilità di modificazione strutturale della società che non passi dal ricorso alla violenza? Si può fare una rivoluzione senza violenza? È una domanda cruciale, che si ripropone ad ogni generazione.
Ovviamente, non le chiedo i nomi di chi ha incontrato per capire la storia delle BR, ma quale è stata la tipologia dei suoi interlocutori?
Lo spettacolo focalizzerà non il punto di vista delle vittime, ma quello dei carnefici. Per questo, ho incontrato ex Brigatisti, alcuni dei quali fanno parte dei cosiddetti “irriducibili”.
Ci aiuti a capire il punto di vista degli “irriducibili”...
Non pretendo di aver capito completamente come ragionano. Quello che - pur non avendo una giustificabilità - ha tuttavia un senso comprensibile, è questo: un brigatista irriducibile è convinto che negli anni Settanta ci sia stato un conflitto storico, una lotta tra due forze, quella reazionaria dello Stato e dell’industria, e quella che loro definiscono «operaia e popolare», una forza rivoluzionaria. In tale conflitto la loro parte ha perso. Loro tuttora pensano che il fenomeno "lotta armata" vada letto come un fenomeno politico. In sostanza, si ritengono degli sconfitti, ma non dei criminali. È la loro tesi. Ed è una tesi di cui mi pare interessante poter discutere.
Durante gli incontri, qualcuno di loro ha mostrato il suo lato più umano?
La compattezza ideologica è un’armatura che quasi tutti indossano: una forma di difesa, che li aiuta a sopravvivere. Delle vibrazioni umane tuttavia ci sono state: uno di loro, un nome importante, si è commosso ricordando la sua esperienza giovanile in una "comune": la vita condivisa, i bambini che crescevano insieme, gli amori che nascevano... È stato, quello, un momento particolare.
Che impressione le hanno fatto, nel complesso, gli ex brigatisti con cui ha parlato?
Oggi sono persone anziane. Quando ci parli, hai la sensazione che siano rimaste incastrate in quell’epoca. Nessuno di loro è veramente andato avanti. C’è un continuo tornare sul proprio passato, come un posto dal quale non si riesce ad uscire. È come essere prigionieri di un tempo, di un’immagine di sé, e delle stesse domande che ritornano. È una condanna quasi kafkiana. Ed è struggente questa impossibilità che la vita possa evolversi.
Nel suo viaggio, qualcosa l’ha particolarmente colpita?
Se si parla di terroristi, l’immagine che se ne ha è quella di sanguinarie macchine da guerra. Poi però incontri delle persone, e nasce una duplicità drammatica. Se fossero dei cattivi da cinema, sarebbe tutto più semplice, invece inevitabilmente ci si trova davanti a degli esseri umani. Questo fatto mi colpisce molto.
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