«In una stanza sul lago nacque tutta la mia storia teatrale»

Il «Teatro» di Cesare Lievi è diventato un libro: il drammaturgo e regista di fama internazionale, nativo di Villa di Gargnano, ha raccolto i suoi testi teatrali «nati a tavolino», cioè scritti prima di trovare una forma sulla scena. Ne è nato il volume «Teatro» (nella collana Orso Blu di Scholé, marchio dell’editrice Morcelliana, Brescia 2022, 510 pp., 35 euro; prefazione di Peter Iden, introduzione di Gianfranco Capitta). Ne abbiamo parlato con l’autore, nell’imminenza della prima presentazione al pubblico, a Salò.
Lievi, come è nato questo libro? La raccolta è nata due o tre anni fa, in seguito ad una proposta di Ilario Bertoletti, il direttore di Morcelliana. Tutto quindi è accaduto prima del Covid, che dunque non ha avuto un ruolo nella decisione di fare un bilancio della sua opera drammaturgica...Esatto: prima che scoppiasse la pandemia il libro era già completato. Si tratta per la maggior parte di testi già pubblicati, in Italia o nei Paesi di lingua tedesca. Sono molto orgoglioso di questo libro, mi pare ben fatto, ben stampato.
Che effetto le ha fatto vedere i suoi testi tutti insieme? Mi ha fatto molta impressione: sono 30 anni di lavoro. Mi ha stupito soprattutto come i testi si rimandano uno con l’altro. Stilisticamente a volte sono diversi, ma si richiamano, formando - ora che li vedo insieme - un corpus unico, diviso in dieci parti. Per me questa è stata una scoperta.
Quasi tutti i suoi testi si svolgono in una stanza: che cosa è per lei la stanza? In effetti, le scene all’aperto sono poche, e a volte anche "l’aperto" è racchiuso in una stanza, come nella scena in cui i fratelli si ritrovano in una stanza nella quale è cresciuta l’erba. Devo osservare subito che il Teatro dell’Acqua, dove sia io che mio fratello Daniele abbiamo realizzato i primi spettacoli, era una stanza. Per la precisione, era uno stanzone di 6 metri per 12: da una parte stava il pubblico (al massimo 50 persone) e nell’altra parte prendevano vita i nostri spettacoli. Per quanto Daniele, che era lo scenografo, potesse fare, avevamo a che fare con una stanza e non si poteva cambiare. La stanza ha determinato il nostro lavoro. Posso dire quindi che essa ha anzitutto un’origine biografica. Ma c’è di più. Le tematiche che tratto nei miei testi, possono nascere solo all’interno di una stanza. È quindi anche una stanza mentale, e quasi sempre è contemporaneamente sia una prigione, sia un luogo di liberazione. La possibilità di liberarsi dalla prigione è data dalla stanza stessa.
Mi dica se la mia impressione è corretta: più passano gli anni, e più lei si rende consapevole dell’importanza che hanno avuto gli anni giovanili del Teatro dell’Acqua. È chiaro che quello che abbiamo fatto in gioventù è molto importante, e ha determinato tutto. Pur essendo un teatro di "immaturi", era però molto profondo, molto vero e di grande valore, sia artistico che umano, pur - ripeto - nella sua immaturità.
Un altro tema ricorrente, anzi onnipresente, è il rapporto tra fratelli. Rivolgo la domanda al drammaturgo: cosa mi può dire sul tema dei fratelli? Come tutti i grandi rapporti umani, esso contiene anche una sua tragicità, basti pensare a Caino e Abele. Nel bene e nel male, l’essere fratelli è un tema che offre infinite possibilità di variazione. La mia idea della "fratellanza" non è tanto di tipo familiare, ma è una possibilità "altra" di comunicazione. In «Fratelli d’estate», ad esempio, ci sono due fratelli pasticcieri che comunicano mentalmente: ecco, per me la fratellanza è soprattutto una relazione utopica di estrema corrispondenza mentale e psicologica.
Non posso non rivolgerle una domanda anche sulla presenza di Dio nei suoi testi: ce ne può parlare? Il tema di Dio torna molto nei miei testi teatrali. Se ne parla. E se ne parla per il fatto che esiste il bisogno di Dio ed esiste il concetto di Dio. Il fatto che l’uomo ne abbia bisogno, taglia le gambe a tutti i dubbi: con questo concetto bisogna rapportarsi. L’ateismo secondo me non è possibile, perché esiste il concetto di Dio. I miei personaggi, dunque, parlano del divino e si rapportano a questo. Non possono farne a meno, come non possiamo farne a meno noi.
Ci sarà anche un secondo volume del suo «Teatro»? Sì, vorrei dedicarlo ad altri miei testi, che non sono nati a tavolino, ma sono cresciuti sul palcoscenico, nel confronto con gli attori e con tutti i partecipanti allo spettacolo. Sono copioni che si sono costruiti un po’ alla volta. Penso ad esempio a «Tempi d’amore», o a «Il mio amico Baggio».
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