Cultura

Il ricordo di Enzo Jannacci in chiave bresciana

Il professor Antonio Anselmi ricorda quando lui ed Enzo Jannacci operavano alla Città di Brescia.
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«Provo una profonda gratitudine nei confronti di una persona che mi ha dato la sua amicizia e per la quale ho nutrito sempre grande dedizione». Commovente e sincero, il ricordo che il professor Antonio Anselmi ha di Enzo Jannacci. Lo incontriamo, dopo aver scoperto da una ricerca d’archivio che il dottor Jannacci, negli anni Novanta, è stato più volte nella nostra città, in sala operatoria a fianco di Anselmi, direttore della Chirurgia generale dell’Istituto clinico Città di Brescia.

Accetta volentieri di parlare di Enzo - che per oltre sei mesi, ogni mattina, veniva da Milano nella nostra città per stare in sala ad operare insieme all’amico Antonio - e di ricordare quanto «fosse un uomo diverso da tutti gli altri».
Un uomo straordinario, nel senso letterale del termine, fin dai tempi degli studi universitari e della pratica chirurgica che Anselmi e Jannacci fecero al Policlinico nel reparto del grande chirurgo Vittorio Staudacher, pioniere in Italia della chirurgia d’urgenza e della sperimentazione sui trapianti. «Ho conosciuto Jannacci nel 1966 all’Università degli Studi di Milano. Lui era più avanti di me, ma era rimasto indietro di qualche esame. In particolare, ricordo che riuscì a superare quello di Anatomia patologica solo dopo molti tentativi falliti, perché il professore con il quale lo doveva sostenere era un meridionale che lo interrogava con la coppola in testa. Un atteggiamento baronale che Jannacci non poteva proprio sopportare. Il suo carattere era incompatibile con alcuni meccanismi tipici dei baroni universitari. Fu così che, anche se era maggiore di me, riuscì a laurearsi solo dopo».

Nei ricordi di Anselmi e di quella profonda amicizia nata negli anni della gioventù e durata per un’intera vita, c’è n’è uno in particolare che delinea l’essenza di Jannacci. «Eravamo nel reparto di Staudacher quando un giorno arrivò un paziente che perdeva molto sangue. In questi casi era necessario trovare la vena da trasfondere: oggi ci sono strumenti che facilitano il compito, ma allora non era facile. Ebbene, Enzo ed io iniziammo la ricerca della vena grossa incidendo la coscia. Un’operazione che richiedeva anche energie fisiche e che veniva assegnata ai più giovani. Dopo mezz’ora di ricerca senza successo, si avvicinò un medico più anziano e gerarchicamente superiore, ci fa spostare insultandoci e dandoci degli incapaci. Dopo poco, nemmeno lui riesce nell’operazione e se ne va brontolando. Enzo mi guarda e dice: "Mi dispiace molto per lui". Ecco, in questa espressione c’è tutto Enzo, sempre dalla parte dei perdenti, degli umiliati, degli esclusi. In quel momento, il collega era un perdente, anche se superiore, e per questo Enzo non era riuscito ad infierire su di lui, malgrado prima ci avesse insultati».

Anche nelle sue canzoni e nella sua vita d’artista Jannacci ha mantenuto la stessa cifra: «Cantava gli umili. I potenti lo spaventavano». Anselmi ricorda il grande feeling che l’amico scomparso aveva con le persone. «In ospedale lo adoravano - continua -. Ma quando veniva a Brescia era già molto famoso e, dunque, si fermava solo in sala operatoria e non andava mai al letto dei pazienti, per evitare che si creasse la ressa. Con lui si poteva parlare di tutto, certi di essere capiti e non giudicati. Quando si presentava l’occasione, gli chiedevo anche di cantare, perché le sue canzoni sono pazzesche, in grado di esplorare l’uomo nel profondo. Ricordo, però, che si rifiutava sempre di cantare alcuni brani, come "Sei minuti all’alba". È così bello, non ho mai capito perché non lo volesse più fare».
Anna Della Moretta

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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