Cultura

Il problema dello straniero: la lezione che arriva dai classici

Mario Lentano e le radici delle questioni che oggi ci stanno di fronte
In copertina Galata Ludovisi, I secolo a.C., conservata al Museo Nazionale Romano (Palazzo Altemps)
In copertina Galata Ludovisi, I secolo a.C., conservata al Museo Nazionale Romano (Palazzo Altemps)
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In un breve, ma denso saggio intitolato «Straniero» Mario Lentano, docente di Lingua e letteratura latina all’Università di Siena, invita a meditare sul carattere ambivalente della figura, appunto, dello straniero nell’antichità classica. Degne di molti riguardi sono, così, le riflessioni che l’autore svolge nel volume (Inschibbolet editore, 184 pagine, 14 euro), percorrendo l’intera storia delle culture antiche tra il rinserrarsi nel mondo identitario e gli impulsi all’integrazione, fra relativismo dei valori e rigida affermazione di una superiorità etnica refrattaria ad ogni apertura. Tale processo ha contrassegnato in profondità l’immaginario dei secoli sino alla nostra era.

Prof. Lentano: in Omero, Greci e Troiani sono simili. Il concetto di barbaro è assente. Come spiegarlo? È vero: nell’«Iliade» di Omero i Troiani non mostrano alcuna particolare differenza rispetto ai Greci venuti ad attaccarli. I due popoli parlano la stessa lingua, si riconoscono negli stessi valori e modelli di comportamento, indossano abiti e armature simili. L’analogia investe persino il piano religioso: i Troiani non venerano divinità distinte da quelle dei nemici, e a spartire i loro favori tra i due popoli in lotta sono i medesimi dèi dell’Olimpo, riconosciuti come tali dagli uni e dagli altri. Inoltre, dato di estremo interesse, in Omero è assente una parola così tipicamente greca come «barbaro», che nell’intera «Iliade» compare una sola volta. La cosa aveva colpito già il più grande storico greco di tutti i tempi, Tucidide, il quale avanza un’osservazione interessante: secondo lui, Omero non adopera mai la parola «barbaro» per designare gli altri popoli perché ai suoi tempi neppure i Greci avevano adottato un unico termine per definirsi nel loro insieme. Insomma, secondo Tucidide la nozione di greco e quella di barbaro nascono insieme, sono come due capi di uno stesso filo: se manca l’uno, anche l’altro è assente.

Perché nel mondo greco-romano lo straniero era visto come un dono ed al contempo come un pericolo incombente? Greci e Romani condividono l’atteggiamento ambivalente che molte culture umane hanno nei confronti di quanti provengono da lontano e appaiono caratterizzati da abitudini, lingua, aspetto fisico e colore della pelle diversi da quelli più familiari. Detto questo, tra le due civiltà esistono differenze profonde e non è possibile individuare una visione unitaria dello straniero; oltre tutto, le questioni di principio vengono spesso contraddette dalla realtà, dove a prevalere sono esigenze di altro genere. Gli Ateniesi, ad esempio, erano estremamente gelosi della loro cittadinanza, che concedevano con grande riluttanza; eppure gli stranieri residenti in città, i cosiddetti meteci, erano un bene molto apprezzato, perché producevano ricchezza e pagavano le tasse. E sappiamo che tra i meteci non c’erano solo Greci di altre città, ma anche «barbari».

Greci e Romani ebbero autocoscienza della superiorità della loro civiltà. Ma non mancarono voci contrarie a tale visione... Il mondo greco ha inventato la nozione di «barbaro», che è legata soprattutto a una questione di ordine linguistico: è barbaro chi è incapace di parlare il greco, ma sembra esprimersi attraverso suoni incomprensibili. Una visione che implica dunque l’idea di una superiorità dei Greci su tutti gli altri uomini. Eppure, nella stessa cultura greca voci illuminate mettevano in luce il carattere unilaterale e sostanzialmente arbitrario di quella distinzione. Il geografo Strabone, ad esempio, osserva che anche i Greci sembrano barbari quando provano a parlare le lingue degli altri; e già prima di lui lo storico Erodoto spiega che gli Egizi definiscono barbaro chi si esprime in un’altra lingua. Insomma, i Greci stessi erano consapevoli del fatto che essere barbari è una questione di punti di vista: basta modificare il proprio osservatorio e si diventa subito i barbari di qualcun altro.

Cosa può insegnarci la classicità in merito ai problemi del presente legati allo «straniero»? Personalmente, non amo l’idea che Greci e Romani possano insegnare qualcosa, anche se la cultura occidentale li ha spesso idealizzati come modelli di inarrivabile perfezione o esponenti di una superiore umanità. Troppo diversa è la nostra società dalle loro, troppo diversi e più complessi i problemi che deve affrontare. Certo: capire in che modo due grandi culture antiche hanno pensato lo straniero, immaginato l’alterità e gestito il rapporto con un mondo già allora irriducibilmente plurale offre una straordinaria opportunità di confronto e permette di capire meglio le radici antiche delle questioni che oggi ci stanno di fronte. Ma dopo aver interrogato quelle culture, e ascoltato le loro risposte, è solo a noi che spetta il compito di trovare nuovi percorsi verso una storia e un’umanità migliori.

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