Cultura

Il capitano Grandi, uomo unico e coraggioso

Ruggero Bontempi
Marco Dalla Torre è l’autore della biografia per le Edizioni Ares recentemente ristampata in edizione ampliata
Un ritratto di Giuseppe Grandi - © www.giornaledibrescia.it
Un ritratto di Giuseppe Grandi - © www.giornaledibrescia.it
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«Non è sovrumana maestà quella del capitano Grandi che, ferito a morte, vedendo intorno alla slitta il cerchio silenzioso dei suoi alpini: “Che cosa sono, gridò, questi musi duri? Su ragazzi, cantate con me: ’Il capitano si l’è ferito, si l’è ferito: sta per morir’... E allora, sulle desolate distese della steppa invernale, si levò un lesto e mesto corale di alpini».

Non c’è alpino né lettore che non abbia avuto un sussulto di commozione leggendo le parole di don Carlo Gnocchi che raccontano la scena del capitano Grandi ferito a morte in Russia. Marco Dalla Torre è l’autore della biografia di Giuseppe Grandi per le Edizioni Ares (256 pagine, euro 16,80), recentemente ristampata in edizione ampliata.

Il capitano Giuseppe Grandi fu ferito a morte il 26 gennaio 1943 nella battaglia di Arnautowo che precedette quella di Nikolajewka. «Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio»: il beato don Carlo Gnocchi ricorda così l’abbraccio dei suoi Alpini. Crede che è in questi momenti che si incontrano storia e leggenda?

Il ripiegamento dalle postazioni sul Don è probabilmente il fatto d’armi maggiormente raccontato in Italia della Seconda guerra mondiale. Don Gnocchi lo visse in prima persona, e parlava di queste undici battaglie come della più alta vittoria dello spirito sulla materia, della volontà sull’avversa fortuna. La forza di resistere nelle condizioni infernali del ripiegamento veniva loro dal desiderio, tutto umano, di tornare alla vita, alla terra, alla famiglia. Ma anche dalla responsabilità dell’interminabile colonna dei 30.000 sbandati che la seguivano e che vedevano nei reparti alpini combattenti l’unica àncora di salvezza. Quella responsabilità fu, in fondo, il motivo del sacrificio del battaglione «Tirano», che nella battaglia di Arnautowo perse le metà dei propri effettivi e tutti i comandanti di compagnia. Se si pensa che era il decimo giorno di ritirata, in condizioni che noi non riusciamo neppure a immaginare, sì, la storia è diventata leggenda.

Tra le lettere riportate in questa nuova edizione ce n’è una in cui Grandi descrive il suo sentimento del bello «come armonia di mille valori», una fusione di passioni per la natura, musica, arte e fotografia. Questa sensibilità ha contribuito a creare il rapporto di empatia e di stima con gli Alpini che comandava?

Penso sia stato uno dei fattori che lo aiutò a preservare la sua umanità in condizioni estreme. L’affetto incondizionato dei suoi uomini è l’aspetto che più mi ha colpito in questa vicenda. La guerra costringe a levarsi le maschere che spesso si indossano nelle relazioni sociali. Lascia l’uomo «nudo» facendo emergere vigliaccheria, egoismo e meschinità, ma anche saldezza morale e spirito di sacrificio, e talvolta la santità. Quasi tutti i memorialisti della campagna di Russia citano la morte del capitano Grandi, ma nessuno racconta la sua pur breve vita. Eppure, se era tanto amato doveva essere un uomo di virtù, per questo ho voluto ricostruirne la figura e la vita. A mio parere il fattore che creò subito empatia nei suoi soldati, per lo più contadini, fu il suo solido buon senso e senso pratico. Aveva poi un’umanità capace di incoraggiare, valorizzare e unire. Si faceva davvero carico di ognuno. Benché fosse poco più grande di loro (morì a 28 anni), fu davvero un «padre» per loro.

Grandi su una parete di roccia - © www.giornaledibrescia.it
Grandi su una parete di roccia - © www.giornaledibrescia.it

Nuto Revelli descrive il «coraggio vero» di Giuseppe Grandi nel dedicarsi all’opera di sminamento nelle campagne russe nel 1942. Ottant’anni più tardi la storia si ripete in quelle ucraine...

Quel ricordo di Revelli mi ha davvero lasciato a bocca aperta. Quando scrissi la prima edizione di questo libro non mi sarei mai immaginato che quei luoghi potessero tornare teatro di una guerra altrettanto sanguinosa. E la guerra cui oggi assistiamo è ancora peggiore, perché condotta tra popoli fratelli.

Che coinvolgimento ha aggiunto il suo essere alpino al lavoro di scrittura di questa biografia?

Molto, naturalmente. Alla visita di leva chiesi formalmente di essere arruolato in quel Corpo e la mia personale esperienza è stata entusiasmante. Qualche anno dopo ho letto «Il cavallo rosso», magnifico romanzo di Eugenio Corti, e la narrazione della morte del capitano Grandi è tra le pagine che non si possono dimenticare, per cui ho voluto riportarle in apertura del volume.

Oggi sono in pochi a cantare le canzoni alpine, ma «Il testamento del capitano» è una delle più conosciute. La sua intonazione negli ultimi momenti di vita del capitano Grandi sembra consegnare all’eternità l’uomo, la musica e le parole. È così?

Dopo la battaglia di Arnautowo, gli uomini della 46ª compagnia si strinsero attorno al loro capitano ferito. Sia lui che loro sapevano che si avvicinava la fine. Tutti i testimoni concordano che gli venne questa strana idea per rialzare il loro animo che vedeva addolorato, per incoraggiarli e tenerli uniti. In quel testamento davvero erano compendiati i legami e gli amori della sua e della loro vita: la terra, la famiglia, la donna amata.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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