Graffiti: forza creativa in città, altro che estetica del carino
C’è un manoscritto gotico vergato sui muri delle nostre città e sui treni che sfrecciano da un capo all’altro dello Stivale. Caratteri all’apparenza illeggibili. Segni ostici bollati come brutture. Eppure quegli scarabocchi hanno regole, forme, struttura. Per capirli servono occhi allenati e - come per gli incunaboli - una chiave d’interpretazione. A fornirla è il ricercatore Alessandro Mininno che, per i tipi della casa editrice veneziana «bruno», pubblica «Graffiti Writing in Italy 1989- 2021», riedizione del fortunato saggio uscito nel 2008 per Mondadori Illustrati. Il libro, in uscita il 15 novembre, è prodotto dall'agenzia bresciana Gummy Industries.
Da dove nasce la necessità di un aggiornamento tredici anni dopo?
Le persone continuavano a chiedermi se fossero ancora disponibili copie del libro. Perché effettivamente, da allora, non sono usciti altri volumi divulgativi su questo argomento in Italia. Una cosa bella e rassicurante è che nei graffiti non è cambiato niente: l’idea di scegliere un nome e scriverlo in maniera sempre più pervasiva in città è rimasta identica a quasi 50 anni di distanza. Ho però aggiunto un capitolo su Instagram, che è l’unica cosa rilevante successa negli ultimi dieci anni al writing.
Come definiresti il writing in poche parole?
La gente tende a confonderlo con le scritte sui muri, col «forza Brescia» o «Francesca ti amo». In realtà ciò di cui si parla in questo libro è una sottocultura in cui dei ragazzi scelgono un nome di fantasia, la tag, e lo scrivono il più volte possibile, con lo stile più bello possibile e nei posti più inaccessibili. Gli scarabocchi che danno tanto fastidio sono quindi i nomi dei writers che cercano di essere presenti in tutta la città più degli altri. In questo sistema non c’è quasi nulla di artistico: ovviamente sono molto attenti allo stile come effetto collaterale, ma il senso principale è la competizione. Il writing è molto più vicino ad uno sport estremo che ad un'arte.
Questa ripetizione del nome è espressione di puro egocentrismo, tensione verso la notorietà o risponde ad un istinto primordiale?
Tutte e tre le cose. Sicuramente egocentrismo e tensione verso una notorità autorefereziale, che si coltiva però nell’ambiente dei writers e non nei confronti del grande pubblico. Quanto all’istinto primordiale, è indubbio: se andassi alla scuola elementare e dessi 50 spray ai ragazzini tutti scriverebbero il loro nome. Non a caso la prima cosa che ti insegnano a scrivere è proprio il tuo nome.
Interessante il paragone fra quelli che potrebbero sembrare scarabocchi e un manoscritto gotico. Ce lo spieghi?
Quando tu apri una cinquecentina o un incunabolo non riesci a decifrare quello che c’è scritto. Perché non sai leggere quel font, non riesci ad interpretare le legature. Ma nel momento in cui impari le lettere di colpo quella texture diventa un insieme di parole. Quindi se impari a leggere le tag di colpo la città diventa un libro.
Quale è stato il contributo degli Interrail al mondo del writing?
Questo libro è quasi tutto sui treni. Per me i graffiti in Italia sono quelli sui treni, ancora più che sui muri. Perché l’Italia ha infiniti sistemi ferroviari molto belli, con livree di colori diversi. E qui è più facile, rispetto ad altri Paesi, disegnarci sopra. A un certo punto è nato un turismo internazionale dei writer: come il Gran Tour di Goethe, solo con l’obiettivo di dipingere i treni. L’Interrail era il Ryanair che all’epoca consentì ai writers di girare l’Europa e scambiarsi informazioni e tecniche.
Cosa ha comportato l’avvento dei social? Sono stati più i vantaggi connessi al superamento dell’effimero o gli svantaggi in termini di sicurezza?
Sicuramente i social hanno portato vantaggi e svantaggi. Da un lato sono un buco tremendo di sicurezza: moltissimi writer sono stati individuati tramite social. La cosa bella però è che hanno permesso agli stili di circolare rapidamente, consentendo al writing di progredire in maniera più rapida. Non solo: il writing in Italia ha avuto un momento di rottura nel momento in cui i treni sono stati pellicolati, diventando cancellabili in poche ore. Sicuramente Instagram salva i graffiti dall’oblio.
Che cosa è il Nero Inferno?
È uno dei pochi materiali nati proprio in Italia. Il Nero Inferno è una tintura per pellami che serve a dipingere le scarpe. Alla fine degli anni Novanta, a Milano, i writers hanno scoperto che gli addetti della metropolitana riuscivano a cancellare tutti gli inchiostri tranne questo. Quindi è diventato simbolo delle tag e simbolo del writing milanese.
Parliamo di writing e istituzioni. Perché il mondo dei graffiti ha avuto e ha appetibilità strumentale per la politica?
Il writing è utile alla politica perché è sotto gli occhi di tutti, è difficile da comprendere ed è abbastanza semplice da reprimere. È quindi strumentalizzabile in più sensi. Visto che ha delle derive artistiche il fenomeno viene banalizzato dicendo «a noi piacciono i graffiti belli e colorati e non quelli brutti». Ma la maggior parte dell’arte che è sovapponibile al writing è arte di cattiva qualità. La committenza pubblica è molto carente dal punto di vista curatoriale: sceglie writer e street artist solo sulla base dell’aspetto estetico, cosmetico. Le nostre città si stanno riempiendo di opere scadenti, che non dicono niente, ma che rispondono solo all’estetica del carino. È una degenerazione terribile.
Quali sono i risvolti economici del fenomeno?
Solitamente la gente considera il writing un costo. Cercando di misurare l’impatto del fenomeno sulla società dal punto di vista economico ho invece rilevato che gli effetti sono positivi in due direzioni: da un lato l’indotto generato dai writers che comprano spray e materiali (un giro d’affari che vale alcuni milioni di euro); dall’altro quello prodotto dalle aziende pagate per cancellare e fare sorveglianza e repressione. Cose che fanno parte del fenomeno: senza repressione non ci sarebbero i graffiti come li conosciamo.
Il mondo del writing può rappresentare una risorsa per il futuro?
Se mi imbattessi in una periferia completamente pulita mi preoccuperei. I graffiti sono la dimostrazione visibile di una forza creativa che anima la città. Per fare un esempio, il libro è aperto da un’introduzione di Luca Barcellona, che vent’anni fa era un writer ed oggi è il calligrafo più importante d’Italia. Proprio il writing, due decenni fa, ha selezionato una classe creativa fortissima. I ragazzini con le bombolette di allora plasmano nel 2021 il gusto del nostro Paese. Le tag, oggi, ci dicono che ci sono persone disposte a farsi inseguire, rischiare multe o un processo pur di esprimere una pulsione creativa e competitiva. Queste persone sono risorse di cui una città ha bisogno e che dovrebbero essere stimolate con policy urbane. Non con i muretti legali.
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