«Quelle lettere in cui Brera rinnega l’adesione al fascismo»

Le lettere che Gianni Brera scrisse tra il 16 luglio 1944 e il 25 maggio 1945 al dirigente comunista Fabrizio Maffi illuminano un periodo poco noto nella biografia del maestro del giornalismo sportivo italiano: i mesi da lui trascorsi in Svizzera, dove era riparato nel giugno del ’44 e dove rimase fino al settembre successivo, quando ritornò in Italia per unirsi ai partigiani dell’Ossola.
A ritrovare questi documenti, finora inediti, nel Fondo Maffi conservato nella Fondazione Feltrinelli di Milano, è stato lo storico bresciano Gianfranco Porta. Lo studioso commenta e riproduce le lettere in un saggio pubblicato nell’ultimo numero della rivista «Studi Bresciani», edita dalla Fondazione Luigi Micheletti; e a «Gianni Brera dal fascismo alla lotta partigiana» dedica oggi, venerdì 31 ottobre, alle 17.30 una conferenza nella sede della Fondazione Clementina Calzari Trebeschi, in piazza Paolo VI 29, a Brescia.
Abbiamo chiesto allo storico bresciano di darci qualche anticipazione.
Professor Porta, qual è il valore di queste lettere?
«È un carteggio prezioso perché consente di ricostruire, dal punto di vista di Gianni Brera, la sua esperienza nell’arco temporale dei primi anni ’40. Si capiscono le ragioni che l’avevano mosso, il processo di rivisitazione critica delle esperienze precedenti, i meccanismi che lo portano a una scelta antifascista sempre più convinta».
Iniziò scrivendo su testate fasciste…
«Brera, nato nel 1919, arriva giovanissimo a questo passaggio decisivo della storia italiana, pur avendo già esperienze importanti. Sottotenente alla scuola paracadutisti di Tarquinia, era diventato nel marzo 1943 caporedattore del settimanale “Folgore”. Nelle settimane successive, pubblicò sul “Popolo d’Italia” una serie di articoli sulla battaglia di Giarabub, in Libia: nel marzo ’44 furono raccolti in un volume che, secondo i critici più accreditati, è forse il suo libro più bello».
Perché decise di lasciare l’Italia?
«Dopo l’8 settembre visse mesi contrastati, come molti altri della sua età. All’inizio del ’44 il federale di Pavia, Angelo Musselli, gli propose un ruolo direttivo nel “Popolo repubblicano”, l’organo della Federazione provinciale fascista. Gli lasciò sostanzialmente carta bianca, per dare al giornale un’impronta meno legata alla componente più esagitata del fascismo. In “Studi Bresciani” riproduco uno degli articoli che Brera scrisse, “Processo a Mussolini”: l’esito fu un immediato ridimensionamento del suo ruolo, con crescenti minacce da parte dei fascisti pavesi, che lo portarono alla decisione di espatriare».
Come entrò in contatto con Fabrizio Maffi, anch’egli espatriato?
«Il padre di Brera, militante socialista, aveva avuto un legame stretto con Maffi, segretario della sezione socialista del suo paese, e aveva mantenuto con lui un rapporto di grande stima e amicizia. Maffi, che aveva allora 76 anni, aiutò Brera in una situazione difficile, perché i fuoriusciti antifascisti di più vecchia data lo guardavano con sospetto per i suoi trascorsi. Proprio attraverso questa relazione, inoltre, Brera maturò il definitivo allontanamento dal fascismo».

Insiste nelle lettere sulla sua «malaria giornalistica»…
«Il dato emerge con molta forza: a prevalere su tutto è il bisogno quasi incontrollabile di scrivere, unito alla consapevolezza dei propri mezzi. Brera, anche nelle lettere, padroneggia già molto bene la scrittura. Qui è presente una dimensione emozionale molto marcata, che trova nella sua scrittura fluente, tormentata, un’espressione vivida e incisiva. Ne scaturisce una sorta di confessione a cuore aperto: Brera fa i conti con se stesso, riconoscendo errori e ingenuità, senza nessun filtro di autocontrollo».
L’interesse del carteggio va oltre la sua figura?
«Esso aiuta non solo a capire il suo personale percorso politico, ma anche a comprendere le difficoltà, le titubanze, le contraddizioni e le incertezze di tanti giovani che con l’8 settembre si trovarono a dover fare delle scelte. Il passaggio all’antifascismo fu un percorso non lineare, ma spesso incerto e tormentato. L’esperienza di Brera è indicativa di una scelta difficile, e contribuisce a tratteggiare il quadro di questa generazione di ventenni».
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