Doppio omaggio in dialetto bresciano a Cristina Campo

Doppio omaggio a Cristina Campo in dialetto bresciano, a 100 anni dalla sua nascita. Chi lo avrebbe detto: il contrasto tra la nostra ruvida parlata e «l’appartata autrice di una manciata di poesie, di dense ma illuminanti prose d’arte e di fini epistolari», che è stata «una delle maggiori traduttrici italiane degli anni Cinquanta-Sessanta» (così la definisce oggi Nicola Di Nino) non potrebbe essere più evidente.
Ma se a coniugare l’idioma di casa nostra sono una delle più importanti voci della poesia contemporanea e un docente di chiama fama, ecco che la strana alchimia assume il fascino di una scoperta. Accade nei «Cahiers d’études italiennes», a cura di Di Nino, il cui n. 36, riecheggiando Hölderlin, si intitola «"Con lievi mani". Sulle traduzioni di Cristina Campo nel centenario della nascita». Il ricco numero che rende omaggio alle traduzioni (dal tedesco, dal francese, dallo spagnolo, dall’inglese) di Vittoria Guerrini (questo il nome all’anagrafe della Campo, nata a Bologna il 29 aprile 1923 e morta a Roma il 10 gennaio 1977) propone numerosi contributi, fra cui quelli di Raffaella Bertazzoli, Daniela Marcheschi, Chiara Zamboni. Agli studi, preceduti da un prezioso ritratto dell’autrice a cura di Nicola Di Nino, si aggiunge una sezione di inediti, con tre lettere di Vittorio Sereni all’autrice de «Gli imperdonabili», conservate nell’Archivio Sereni di Luino.
Ma veniamo al dialetto bresciano. Quello di Pralboino entra in questione grazie ad un curioso esperimento letterario condotto da Pietro Gibellini. Nella sua «Testimonianza» - sotto forma di lettera in risposta ad una sollecitazione dell’ex allievo Di Nino - dal titolo «Tradurre l’intraducibile», il docente (amico e studioso del compianto scrittore Alessandro Spina, uno dei pochi e scelti amici della Campo, con cui ella intrattenne una corrispondenza giunta fino a noi) traduce alcuni versi dell’autrice, prima in francese e poi nella sua lingua madre (il dialetto di Pralboino della sua infanzia, «lingua di sessant’anni fa, espressiva e vivace, ma soltanto orale, limitata alla vita quotidiana di una piccola comunità campagnola», scrive Gibellini). Un azzardo, forse; ma - osserva lo studioso, rivolgendosi al destinatario della missiva - «lo sforzo di tradurre l’intraducibile servirà forse a lei, come è servito a me, ad afferrarne qualche lembo del suo fascino segreto».
I «Cahiers» si concludono con una sezione, affidata - scrive il curatore della rivista - ad «alcuni tra i maggiori poeti contemporanei». Tra loro Franca Grisoni, che rende omaggio a Cristina Campo con cinque poesie che prendono spunto dalla Bibbia (Daniele), dal «Credo» di Arvo Pärt, dal Vangelo (Matteo). L’omaggio della Grisoni è - come sempre - in versi scritti nel dialetto della sua Sirmione.
Nella parte finale dell’ultimo testo, Franca Grisoni sembra fare eco alla celebre frase di Cristina Campo, che si definì autrice che ha «scritto poco e vorrebbe aver scritto meno». La poetessa scrive infatti: «Bastares tazer/ nel sito del sò bianc/ che ’l se té speciat/ en net che ’l netares/ fös buna de scultal/ ma ’l bianc, el bianc del fòi/ l’è lü che ’l m’à tentat / lü e la pena/pena/ che la pöl mia das / la pocia en vena ela / la sente chi a svödas». «Basterebbe tacere/ nel silenzio del suo bianco/ che si tiene specchiato/ un pulito che pulirebbe/ fossi capace di ascoltarlo/ ma il bianco, il bianco del foglio/ è lui che mi ha tentato/ lui e la penna/pena/ che non può non darsi/ si intinge nella vena lei/ la sento qui a svuotarsi».
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