Cosa hanno a che fare il bresciano Pietro Felter, la battaglia di Adua, Arthur Rimbaud e Hailé Selassié

«Qui si mangia e si beve ottimamente e si gioca alla morra. Bresciani siamo parecchi. Col nemico abbiamo contatto, e non è da escludersi che in questi giorni, cominci la danza, invidiami pure lo spettacolo». Parole profetiche affidate a una lettera vergata il 28 dicembre 1895 nel forte di Adigrat, quartier generale italiano, dal valsabbino Pietro Felter. Figura straordinaria, fu protagonista nella colonia primigenia d’Eritrea, che nei due mesi successivi conoscerà contro l’Etiopia due delle più brucianti sconfitte mai patite Oltremare da un esercito europeo.
Alla risalente strage di Dogali (1887), si era assommata all’inizio di quello stesso dicembre 1895 la batosta dell’Amba Alagi. Il tentativo di dare un entroterra a quel fazzoletto di Africa assoggettato al tricolore e affacciato sul Mar Rosso si era tramutato in uno scontro, impari per numeri (30mila scioani contri i circa 2.350 tra italiani e àscari del maggiore Galliano), e nella rocambolesca fuga al riparo del forte di Enda Jesus, a ridosso della città di Macallé, appunto.
Felter salvatore di Macallé

Ai primi di gennaio 1896 risale la perdita di quest’ultimo, assediato dal composito ma numerosissimo esercito etiope: circa 100mila uomini, l’80% dei quali munito di fucili. La guarnigione italiana di un migliaio di soldati poté allontanarsi incolume proprio grazie ai buoni uffici del Felter, amico personale di Ras Makonnen - padre del futuro Negus neghesti, l’imperatore Hailé Selassié - oltre che ai soldi dello stesso valsabbino, necessari a noleggiare bestie da soma per le esigenze logistiche del caso. Per riottenere quanto prestato, Felter sarà peraltro costretto ad un estenuante carteggio con il ministero degli Esteri che si concluderà svariati anni dopo.
La tragedia di Abba Garima, anzi Adua

In poche settimane si aggiunse la disfatta più terribile, quella di Adua, avvenuta proprio il 1° marzo di 128 anni fa. Una pagina tragica non solo della storia militare, ma tale da determinare la caduta del governo. E sì che era stata la pressione di Crispi, a mettere in marcia l’ex compagno garibaldino Oreste Baratieri, allora governatore civile e militare d’Eritrea, e a originare il disastro di Abba Garima per le cronache, di Adua, dal nome dell’attiguo abitato, per la storia.
E già il comandante delle truppe ci rivela quanto di bresciano vi fosse in quei tragici eventi. Seppur trentino di natali (ma di Condino, nella valle del Chiese, appena oltre il lago d’Idro), il generale aveva avuto frequentazioni giovanili con Limone e il Garda bresciano. Ma soprattutto era al contempo deputato della Sinistra storica eletto a Breno fin dal 1876. La sua ultima riconferma era del 26 maggio 1895, meno di un anno prima di Adua: come riportava il quotidiano «La Provincia di Brescia» raccolse 1.180 voti, mentre Giuseppe Zanardelli, di cui era amico, si aggiudicò con 2.232 l’attiguo seggio di Iseo.
Le armi dalla Valtrompia
Proprio il collegio sebino comprendeva allora anche la Valtrompia. Quel distretto armiero da cui provenivano 6.000 fucili Glisenti che gli italiani con l’Antonelli (ideatore dello sciagurato trattato di Uccialli del 1891) avevano assicurato agli scioani attorno al 1883: in quella fase Roma, infatti, andava sostenendo la fazione etiope di Menelik II (imperatore in carica e cugino di Makonnen), in contrasto con i tigrini di Ras Mangasciac. Le armi - la cui spedizione fu preparata dal colosso di Villa Carcina in pochi mesi - transitarono da Assab, sulla costa meridionale eritrea: ce ne dà testimonianza proprio il Felter, che le vide accatastate sulla spiaggia in casse destinate a Cesare Nerazzini, ufficiale medico della Regia Marina e delegato del ministero degli Esteri nella giovanissima colonia (a Felter piuttosto inviso).
In un drammatico scherzo del destino, quei moschetti saranno tra gli 80mila che 13 anni dopo ad Adua i 17mila italiani si trovarono puntati contro, con un risultato catastrofico: le stime contano fino a 5.000 morti, 1.500 feriti e 3.000 prigionieri. In un giorno.
Battesimo del fuoco delle truppe alpine

Tra scampati, vittime e catturati, molti i bresciani. Non per caso. A Brescia era di stanza il 12° Reggimento Bersaglieri che in Africa inviò 11 ufficiali e 379 fra sottufficiali e soldati. Ma accanto alle compagnie allestite tra i vari reparti di fanteria - che spesso, al di là dei sorteggi, tributavano ai battaglioni destinati all’Africa i militari più scomodi, le teste calde, quasi a farne delle unità punitive -, sul difficile terreno etiope ebbero il loro battesimo del fuoco le truppe alpine, per le quali la nostra provincia era bacino di arruolamento.
Le penne nere (che tra l’altro dovettero rinunciare ai moderni fucili Carcano ’91 a retrocarica di cui erano già dotate, in favore dei più vetusti Wetterly, solo per omogeneità con il resto delle truppe coloniali) si segnalarono per il coraggio espresso sull’Abba Rajo. Tra gli ufficiali sopravvissuti c’era l’allora sottotenente e futuro generale Giuseppe Treboldi di Anfo, che si distinguerà poi in Libia. Fatto prigioniero, fu tra gli ultimi ufficiali rilasciati, dopo 16 mesi ad Addis Abeba. Al quartier generale di Baratieri, invece, serviva un altro bresciano, il tenente dei Bersaglieri Alessandro Pavoni, grande amico di Felter (si veda più sotto).
I soldati bresciani

I giornali bresciani per settimane ebbero in prima pagina ampie cronache sui fatti di Abba Garima: lunghi elenchi di soldati rimpatriati popolano la Sentinella Bresciana, accompagnati dai dispacci sulle condizioni di questo o quel militare. Sul 25 marzo ad esempio si dà notizia del primo ferito bresciano accertato, tale «Carcano Paolo, colpito alle gambe e a un braccio».
Molte le messe in suffragio ai caduti e le raccolte per la Croce Rossa. Toccanti le prime testimonianze dei prigionieri: «Il capitano Gugliemo Nobis di Manerbio scrisse che gli è proibito di prendere acqua, di lavarsi, di medicarsi le ferite». Tanto che morirà: il suo nome è oggi nel lapidario dei Caduti dell’Accademia Militare di Modena dedicato agli ufficiali lì formatisi e morti per i fatti di Adua. Curiosamente, un suo omonimo manerbiese (vien da pensare: un nipote?) tornerà a combattere in Etiopia quarant’anni più tardi con altra divisa: quella di Centurione delle Camicie nere della Divisione 28 ottobre, rimediando nella prima battaglia del Tembien, a pochi chilometri dalla fatidica Adua, una medaglia d’argento.
Quegli 82 reduci
Quanto a lungo l’eco di quelle vicende si protrasse, lo rivela una circostanza: per ben tre volte negli anni ‘50 il Ministero della Difesa della neonata Repubblica effettuò un censimento dei superstiti di Adua, per riconoscere loro onorificenze e sussidi. Se ne ha traccia anche all’Archivio di Stato di Brescia, che raccoglie una copiosa corrispondenza tra Comuni e Distretto Militare: nel 1953 risultano ancora in vita 82 reduci, ormai ottantenni, i più indigenti.
Annoverarne tra i concittadini appare talvolta motivo di prestigio, la mancanza un vulnus: il municipio di Bedizzole nel comunicare l’assenza di reduci di Adua, tiene a precisare che c’è però tra i residenti un sopravvissuto all’assedio di Macallé (tal Angelo Fantoni). Fra le vicende più clamorose, quella del pompianese Cesare Montini, padre del titolare dell’omonimo albergo allora in via Moretto, in città: tornato da Adua, verrà richiamato più volte, stando al foglio matricolare, fino a tutta la Prima guerra mondiale. E riuscirà a far ritorno illeso da ogni conflitto.
A chiudere idealmente la drammatica pagina di Abba Garima, sarà, da ultimo sempre un bresciano: toccherà infatti al capitano orceano Alfredo Garioni, comandante di Massaua dopo il 1918, dare definitiva sepoltura ai resti dei caduti del 1895/96 trasferendoli al cimitero militare italiano. Lui che era nato proprio l’anno di Adua.
Pietro Felter, tra Arthur Rimbaud e Hailé Selassié

Dal Chiese al Mar Rosso. Militare, agente di commercio, diplomatico e uomo di governo. Intimo dell’imperatore d’Etiopia e amico del grande poeta francese Arthur Rimbaud. È per farne, sintesi, la straordinaria parabola di Pietro Felter (1856), valsabbino di Roé Volciano ma cresciuto a Sabbio Chiese. Irrequieto («al mio paese natio ero conosciuto come un monello»), fu corazziere, ufficiale intemperante sino al congedo, capace di farsi punire, declassare e riscalare le gerarchie militari.
Nel 1883 – compreso che la disciplina dell’esercito non faceva per lui – ecco la svolta africana, con vari impieghi, prima ad Assab, in Eritrea, poi ad Harar, nella regione omonima, negli stessi anni del poeta Arthur Rimbaud, di cui fu amico: l’edizione delle «Opere complete» del francese curata da Adam e pubblicata da Gallimard nel 1972 include anche due affettuose lettere del valsabbino che si interessava alle sorti di Rimbaud, costretto al rimpatrio nel 1890 dalla malattia che gli costerà l’amputazione della gamba destra a Marsiglia e quindi la morte nel novembre 1891. «Ho appreso la dolorosa notizia – scrive il bresciano rimasto ad Harar all’amico convalescente in Francia – e le assicuro che mi è molto dispiaciuto. Per fortuna, al tempo stesso, so che lei ha coraggio e filosofia in abbondanza, e sono convinto che una volta passata la sventura, una gamba in più o in meno, non sarà quella che le impedirà di fare la sua strada nella vita. È con molto piacere che la rivedrò qui molto presto. Quante novità da quando lei è partito!».
Augustine Porte e la foto con Rimbaud

Esploratori quali Vittorio Bottego o Arturo Franzoj ebbero pure in Felter un referente tra Eritrea ed Etiopia e l’incarico di informatore ricevuto dal ministero degli Esteri lo rese amico di Menelik II. E soprattutto del cugino ras Makonnen, che tenne a battesimo il suo primogenito, poi prematuramente scomparso. Parimenti, il figlio del ras, Tafari, il futuro Hailé Selassié, Negus neghesti che dopo la parentesi dell’occupazione italiana reggerà l’impero etiope fino all’avvento del Derg e morirà nel 1975, fu a balia dalla moglie di Felter, la francese Augustine Émilie Porte, che aveva da poco avuto la secondogenita del valsabbino, Pierina.
La biografia della consorte di Felter non è meno di ricca di eccezionalità, specie se si collocano le sue vicende nell’ultimo scorcio dell’Ottocento. Era figlia adottiva dei proprietari del Grand Hôtel de L'Univers ad Aden, dove 17enne sposò in prime nozze nel 1878 il francese Édouard Joseph Bidault de Glatigné de La Touche (1850-1925), giunto per aprire un’attività da fotografo nella città yemenita. Dal francese, Augustine avrà una figlia, Marie Cécile, nata l’11 novembre 1880 proprio ad Aden. A quel periodo risale una fotografia riscoperta nel 2010 e a lungo studiata dai biografi di Rimbaud, che la ritrae accanto al poeta e al marito (oltre che ad esploratori e commercianti francesi) dinnanzi all’albergo dei genitori adottivi. Ad Aden aveva sede l’azienda per la quale Felter era agente ad Harar e proprio nella città della penisola araba avverrà l’incontro tra la donna e il bresciano. Augustine si separerà presto dal fotografo, ottenendo anche l’annullamento del matrimonio, per trasferirsi con Felter a Salò, salvo poi tornare presto in Africa.

I due coniugi avranno cinque figli, l’ultima dei quali, Alba Felter Sartori (1897-1991) farà sua la passione per il Continente nero e le esplorazioni, tornando – giovane donna da sola, cosa eccezionale per i tempi – nel Corno d’Africa per un viaggio di quasi tre anni, documentato nel libro «Vagabondaggi Soste Avventure negli albori di un impero» (Brescia, 1940). Un sentimento per la scoperta e l’internazionalità che in famiglia ha poi rinnovato un nipote di Felter, figlio di quella Pierina sorella di latte del piccolo Haillé Selassié: Carlo De Leonardis, nato nel 1915, a Sabbio Chiese, nella stessa casa di famiglia in cui tre settimane più tardi morirà il celebre nonno, vive da oltre 70 anni in Bolivia dove ha quest’anno tagliato il traguardo dei 108 anni.
Gli altri bresciani in riva al Mar Rosso

Con Pietro Felter al quartier generale di Baratieri, prima a Macallé e poi ad Agridat, era allora un altro bresciano: il tenente Alessandro Pavoni, grande amico del valsabbino. Pronipote di Lodovico, il sacerdote fondatore dell’ordine religioso che porta il suo nome, proclamato Santo nel 2016, partecipò alla conquista di Cassala e si distinse per le relazioni sugli Habab a Keren, dove fu, dopo Salvatore Persico, primo Residente italiano (funzionario coloniale di riferimento).
Fu poi uno dei primi operativi del servizio informazioni militare in Libia (1915) e quindi Commissario di Misurata. Denunciò tra l’altro in queste vesti gli abusi di alcuni carabinieri italiani nei confronti della popolazione locale. Rimetterà l’incarico nel 1917. Al suo rientro in Italia, risulta residente a Roma. Da sempre la congregazione dei Pavoniani è fortemente radicata in Eritrea, tanto da vantare ad Asmara nel quadro di un vasto impegno alla formazione dei giovani, quella che è tuttora la più vasta biblioteca del Paese. Non è dato sapere se il legame di parentela tra il funzionario del Ministero delle Colonie e l’ordine istituito dal religioso e santo concorse a dare impulso all’impegno in quell’angolo di Africa nel quale aveva speso tanta parte della sua giovinezza.
Pavoni, in ogni caso, non è il solo bresciano che Felter frequentò in Eritrea. Come scrive nelle memorie, pubblicate postume dalla figlia Alba («La vicenda affricana 1895-96»), ne incontrò anzi subito due al suo arrivo ad Assab, «Agazzi e Giustacchini, che parlavano il patrio dialetto». Unici commercianti del luogo, vivevano in una capanna sulla spiaggia. Di Agazzi poco ci resta. Giustacchini era invece Riccardo (1854-85), membro della nota famiglia di imprenditori della carta. Morì di febbri durante un’esplorazione sulle rive del lago salato Assal, in Dancalia.
La morte a Sabbio Chiese

Felter, a lungo Commissario di Assab, concluse l’esperienza africana - riscoperta da Vitale Dusi e meritevole di nuovi studi - nel 1907: rientrò a Sabbio Chiese quasi cieco e vi morì di lebbra nel 1915. In paese lo ricordano una via e una lapide sulla casa di famiglia, il suo tricolore fu donato dagli eredi al Municipio. Con sé portò forse un solo rammarico: il rimprovero che mosse, dopo la disfatta, a Baratieri in cerca consiglio. «Non è ora che deve chiedermi cosa dobbiamo fare, era prima». Se il suo invito alla prudenza fosse stato ascoltato, la triste pagina di Adua non sarebbe mai stata scritta.
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