Cultura

Cosa c'è da sapere sull'ultima mostra dedicata a Marina Abramovic

A Palazzo Strozzi a Firenze 50 anni di performance al limite in «Marina Abramovic. The Cleaner»
Marina Abramovic sul manifesto della mostra
Marina Abramovic sul manifesto della mostra
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I due ragazzi nudi attendono uno di fronte all’altra, lo sguardo fisso davanti a sé, che qualche audace visitatore si insinui nello stretto varco tra i loro corpi, sfidando intimità e convenzioni. Più un gioco che una provocazione, nelle sale di palazzo Strozzi, dove fino al 20 gennaio è allestita la mostra «Marina Abramovic. The Cleaner» retrospettiva dell’artista serba stella della performing art, che questa performance («Imponderabilia») mise in scena nel 1977 con il compagno di allora Ulay nella galleria comunale d’arte moderna di Bologna, dove la polizia fece irruzione per interrompere quella che fu giudicata offesa alla pubblica decenza.

Con «The artist is present», nel 2010 a New York Abramovic per tre mesi si presentò quotidianamente al MoMa per accogliere, ieratica e silenziosa, i visitatori invitandoli a sedere di fronte a sé per guardarli negli occhi con un’intensità emotivamente sconvolgente. Parafrasando il titolo di quella celebre performance, giocata tutta sull’«aura» dell’artista e sulla sua capacità di creare campi di energia empatica in grado di toccare nel profondo, si può azzardare che qui a Firenze l’artista sia in realtà «not present».

La scommessa di Abramovic - l’idea che le sue performance possano essere replicate da allievi dopo un lungo e faticoso addestramento fisico e mentale - rischia di restare congelata dalla musealizzazione e dalla storicizzazione. E la bella mostra promossa da Fondazione Palazzo Strozzi e prodotta da Moderna Museet di Stoccolma, che attraversa 50 anni di lavoro, dalle prime tele espressioniste degli anni di Belgrado ai recenti «oggetti transitori» che custodiscono e sprigionano l’energia della natura, rimane una carrellata di documenti visuali di una carriera alla ricerca del limite della resistenza fisica e mentale.

Va dato atto ad Abramovic che la sua adesione alla performing art è stata totalizzante e viscerale. Nei video degli anni ’70 è palpabile la tensione tra la protagonista e il compagno Ulay, quando in «Rest Energy» (1975) l’equilibrio precario tra i due è retto su un arco teso con una freccia puntata sul petto di lei; o quando in «Relation in space» (1976) per un’ora, nudi, si corrono incontro impattando violentemente uno contro l’altro. La performance è sempre relazione con l’altro (come in «Rhythm 0», 1975, quando lasciò il proprio corpo nudo in balia del pubblico in galleria) e con se stessi («The ouse With The cean View», 2002- 2008, per 12 giorni in ascetico isolamento e digiuno davanti agli spettatori).

Lineare e ariosa anche quando presenta azioni cruente (il video di «Balkan Baroque», quando nel 1997 alla Biennale di Venezia si installò in un sottoscala a pulire ossa sanguinolente di mucca, metafora dell’orrore che si consumava nella sua patria d’origine: fu Leone d’Oro) la mostra è l’occasione per Abramovic per «ripulire» («The Cleaner») e rimettere ordine nel proprio percorso. E, a 71 anni di età, entrare nel territorio della mente e dello spirito, lasciando ai giovani adepti le ri-performance allestite in mostra a cadenza periodica (orari su www.palazzostrozzi.org anche per info generali). La madre dell’arte performativa si chiude nella propria aura, lasciando alla memoria l’impatto dirompente di azioni entrate nella storia.

 

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