Cultura

Com’è andato il primo episodio della fiction su Fabrizio De André

Dopo Sanremo, Rai1 punta su «Il principe libero»: un primo bilancio, stasera c’è la seconda parte
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Chissà se ieri sera gli studenti del De André l’hanno visto, il primo episodio. Domenica, da Fazio, c’era tra il pubblico una classe del liceo bresciano e quando il conduttore ha chiesto fiducioso «cosa sapete di Fabrizio De André?» lo studente incaricato di rispondere, ci pare Davide, ha risposto «purtroppo troppo poco», aggiungendo poi che sì, era uno che nelle sue canzoni parlava dei problemi sociali, delle ingiustizie (citiamo a braccio), «degli ultimi» ha detto ecumenico Fazio. Degli ultimi, sì, applausi, andiamo avanti col programma. 
 
Insomma, chissà se ieri sera hanno guardato questa prima parte della fiction di Rai1 «Il Principe libero», 6.586 tweet con l’hashtag d’ordinanza (#PrincipeLibero) a trasmissione appena conclusa e un’audience che più avanti sapremo com’è stata, ma è probabile che sia altina, vista la risonanza del personaggio, il battage pubblicitario, il traino lungo di Sanremo (no, Favino non c’è, ma è bravissimo anche a non esserci).
Un biopic aperto dal rapimento in Sardegna e concluso per ora da «Amico fragile», composta dopo una sbronza colossale presa a una festa con gente che evidentemente non gli piaceva (è proprio così anche nell’aneddoto raccontato dallo stesso De André). 
 
In mezzo c’è l’adolescenza, la strada dove ci sono «le persone vere», le prime canzoni, il lavoro che non gli interessa, il Padre Giuseppe (Ennio Fantastichini) il primo figlio, Cristiano, con Enrica Rignon, detta Puny, la svolta lenta con Marinella e l’inizio dell’amore con Dori Ghezzi, mentre attorno iniziano a definirlo il più grande cantautore italiano. E poi Paolo Villaggio (Gianluca Gobbi) che gli ripete «sei un genio» finché (forse) Faber ci crede, Luigi Tenco, che entra nel locale col barista che gli dice «uè, Tenco», casomai non si capisse, interpretato da un Matteo Martari che ricorda Tom Waits. 
 
Ecco, le interpretazioni. Sempre a Che tempo che fa, l’attore protagonista Luca Marinelli aveva quell’aria da animale braccato che non si trova a proprio agio in uno studio, a fare la parte di quello che promuove il prodotto. Dori Ghezzi, ospite pure lei del programma assieme a Valentina Bellè, che la interpreta nella fiction, ha detto che senza Marinelli («Lo chiamavano Jeeg Robot», «Non essere cattivo») il film non si sarebbe fatto.
 
Possiamo capirlo: chi c’è in giro di adatto a una parte simile? E lui è bravo, anche quando rischia di trasformarsi nel suo alter ego Er Principe libbero, causa accento capitolino. Tormentato, con quella faccia disegnata da Andrea Pazienza, con quell’andatura appesantita sulle spalle che aveva De André, con quella voce che no, non può essere la stessa, ma che non si accartoccia nell’imitazione e trova un modo suo di arrivare a noi spettatori ascoltatori (che ne dice Francesco Bianconi dei Baustelle? Lui che da un certo punto in avanti ha cominciato a credersi la reincarnazione del buon Faber). 
 
È chiaro che la confezione di Luca Facchini è da fiction, non ci si scappa. Il quarantanovenne è alla prima prova di peso nazionalpopolare dopo lavori nella serie «La Nuova Squadra» o un film su Fernanda Pivano (aveva detto, lei, che De André è il Bob Dylan italiano, come se si potesse va be’, lasciamo perdere) e non rinuncia a quel gusto didascalico tipo De André che vede in riva al mare le donne con i cesti carichi di acciughe e parte la canzone «Le acciughe fanno il pallone» (nel film siamo negli anni Sessanta, la canzone verrà incisa dopo, però ecco svelata l’ispirazione); oppure De André nello studio di registrazione milanese giustamente anticipato, nel montaggio, dalla Torre Velasca (#casomai). Però ci vuole un certo coraggio ad affrontare la materia, nonché una certa dose di generosità nel capire che i momenti più emozionanti non saranno voluti propriamente dal regista, ma saranno per così dire emanati dalle canzoni.
 
Mina che canta «La canzone di Marinella», Dori Ghezzi che ascolta scosciata il «Valzer per un amore» o ancora le prime esibizioni con Villaggio cantando «Il fannullone» e «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers».
 
Quindi bisogna costruire attorno a questi brani un racconto credibile, e c’è, non (troppo) retorico, e ci siamo, sufficientemente rapido per essere compresso in due puntate, idem. Mancano gli accenti genovesi? Pazienza, la Rai - che qui produce attraverso Rai Fiction insieme a Bibi Film - è pur sempre un affare romano (immaginatevi cosa accadrebbe se facessero interpretare Venditti a uno a scelta tra Luca e Paolo, per dire).
Diciannove anni dopo la sua morte, Fabrizio De André (Fabio Fazio già minaccia la trasmissione per il ventennale) è una sorta di divinità non perché sia stato santificato, ma perché ciò che ha saputo fare con la musica è stato unico e irripetibile. De André/Marinelli nel film se la prende quando una parata in Mantova-Genova viene definita miracolosa.
 
«Tutti tirano in ballo Dio», dice, anche quando uno ha fatto semplicemente ciò che doveva fare, e lo ha fatto bene. De André non era lo spirito trascendente in cui rischia di tramutarsi ogni grande artista scomparso, ma era un uomo fatto di sangue, alcol, sigarette, libertà e poesia. E voce. Non sarà un miracolo, d’accordo, ma con Luca Marinelli ci sembra quasi di vederlo in carne e ossa. E già basta.
 
Aggiornamento: «Fabrizio De André, il Principe libero» è stato visto da 6,1 milioni di persone, pari al 24.3% di share. In pratica, non c’è stata competizione: su Canale 5 la quarta puntata dell’Isola dei Famosi ha avuto 3,8 milioni di spettatori (21.6% di share).
 

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